
LOTTE E TENTAZIONI DEI PADRI DEL DESERTO
Col nome di Padri del deserto si indicano
quei monaci, eremiti e anacoreti che nel IV secolo, dopo la pace
costantiniana, abbandonarono le città per vivere in solitudine nei deserti
d'Egitto, di Palestina e di Siria. Il primo di questi anacoreti fu Antonio il
Grande, affettuosamente da noi chiamato ‘’Sant’Antoun’’, che festeggiamo il 17 gennaio, ma del quale conosciamo così poco.
Nell'ascesi solitaria, i Padri (abba)
cercavano la via dell' hesychia, della pace interiore. Testimoni di una fede
cristiana vissuta con radicalità, ebbero numerosi discepoli, pur continuando a
vivere in assoluta solitudine.
Furono proprio loro, in diverse epoche, a
mettere in forma di racconto i detti e le azioni dei santi anziani, con uno
stile semplice e disadorno, perché essi miravano a quest’unico scopo: l’edificazione di molti, perché l’anima
ricavi da tutto edificazione, e si diletti delle parole degli anziani più dolci del miele e del succo dei
favi e noi, vivendo in
modo degno della chiamata del Signore, raggiungiamo il suo Regno.
I loro detti o apoftegmi, in cui
traspaiono sapienza evangelica e arguzia umana, furono tradotti in varie
lingue.
ANTONIO IL GRANDE
Era nativo di un villaggio
copto; di famiglia cristiana, di cultura semplice e limitata.
«Frequentava con i genitori la chiesa… era sottomesso ai genitori»
(Vita Antonii, 1, 3), era un giovane molto pio. Rimase presto orfano, solo con
una sorellina: «Aveva 18 o 20 anni e si
prendeva cura della casa e della sorella» (ibid., 2, 1). Pochi mesi dopo,
sentì irresistibilmente rivolta a lui la parola del Signore al giovane ricco,
che udì leggere in chiesa: «Se vuoi
essere perfetto va’, vendi tutto quello che possiedi, dallo ai poveri, e avrai
un tesoro nei cieli, poi vieni e seguimi» (cf. Mt 19, 21). Questa frase lui
la sentì rivolta a se stesso e così, per gradini successivi, si diede a una
vita di preghiera e penitenza, prima in casa; poi dopo aver affidato la sorella
«a delle vergini fedeli, che ben
conosceva, perché fosse allevata nella verginità» iniziò una vita più
solitaria nelle vicinanze del villaggio, poco distante da Alessandria, seguendo
l’esempio e l’insegnamento di un vecchio asceta che viveva da quelle parti.
Vi erano infatti già persone
che, da sole o in piccoli gruppi, consacravano tutta la loro vita al Signore
nella verginità, penitenza e preghiera. Ma il fenomeno non aveva ancora
raggiunto né particolari dimensioni, né l’aspetto di esodo dai luoghi abitati
che si verificò sulla scia di Antonio; a buon diritto, quindi, egli ha avuto il
titolo di padre del monachesimo. Il suo rapporto con quell’anziano, congiunto
alla ricerca di qualche contatto con gli uomini amanti di Cristo, è una
testimonianza viva di un punto essenziale della vita ascetica: il doversi
mettere a scuola, il non poter iniziare senza maestro.
Seguì poi il ritiro di
Antonio più lontano dal mondo, in una delle tante tombe di una regione
disseminata di sepolcri. Qui visse fino all’età di 35 anni, per inoltrarsi
quindi nel deserto e insediarsi a Pispir, in un fortino semidistrutto e qui vi
resta per circa vent’anni.
La via all’eremitismo è
una chiamata di Dio, una grazia che presuppone la natura, non la distrugge.
È una vita molto dura perché
significa restare solo tutto il giorno con Dio, con i propri pensieri e con le
tentazioni demoniache; sicuramente, però, è una vita di valore perché essa da
sola testimonia la presenza di Dio: come farebbe un uomo a vivere da solo se
non avesse il rapporto con Dio?
La sua fama, intanto,
diventa sempre più grande, e sempre più numerosa la gente che vuole udire da
lui qualche parola. Frattanto cresce in lui il desiderio di una solitudine sempre
maggiore e quello del martirio, per
questo, durante le persecuzioni di Diocleziano e Massimiano, si recò ad
Alessandria sperando di essere anch’egli martirizzato, ma non avvenne così.
«Serviva tuttavia i martiri nelle miniere e nelle carceri e, assistendo ai
processi, con i suoi discorsi esortava appassionatamente i lottatori perché
avessero più pronta buona volontà al martirio» (ibid., 46, 3).
Se non potè realizzare la
sua aspirazione a testimoniare la sua fede col suo sangue, capì che era
possibile seguire Cristo, nudo, povero, obbediente vivendo il martirio in forma
ascetica.
Così, quando la persecuzione
si placò, Antonio ritornò nella sua solitudine, ove «subiva ogni giorno il
martirio del corpo con l’austerità della sua vita e della coscienza per le
lotte che sosteneva contro le tentazioni» (ibid., 47, 1).
È questa la lotta alla
quale siamo chiamati tutti: il martirio della carne, la crocifissione dell’uomo
vecchio per avere come premio la vita eterna.
Dato che molti lo cercavano per ascoltare le sue parole, si allontanò dal Nilo inoltrandosi ancor più
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Grotta in cui viveva Antonio, sul monte che domina il suo monastero |
A chi gli chiedeva perché si
fosse ritirato nel deserto, egli rispondeva: ‘’Sono venuto a piangere i miei peccati’’.
È questo uno dei maggiori
insegnamenti che ci vengono da lui che non faceva altro che piangere i suoi
peccati e tenere nascosti i suoi doni, contrariamente a quanto facciamo
noi che, influenzati dalla povertà e
superficialità spirituale del nostro tempo, nascondiamo i peccati e mettiamo in
evidenza i doni.
Suo cibo quotidiano era la
Scrittura, che ruminava da mattina a sera e che conosceva a memoria per buona
parte.
Questi sono i dati
essenziali di una vita che si sviluppa in modo organico verso una solitudine e
un’immersione in Dio sempre più grandi, pur non potendo Antonio evitare un
certo numero di contatti spirituali con persone che venivano a cercarlo.
La Vita Antonii, scritta
da Atanasio poco dopo la morte del grande eremita, ebbe subito un grandissimo
successo, com’è provato dalla testimonianza di Agostino alla cui conversione
contribuì fortemente (cf. Conf., VIII, 6, 14ss.) e dal fatto che in breve fu
tradotta in latino, copto, armeno, siriaco, arabo, etiopico e georgiano, e da
numerose altre tracce del suo vasto influsso.
Dalla Vita e da altre
fonti risulta che Antonio dettò sette
lettere ai monaci e alcune altre lettere di risposta all’imperatore, al
vescovo, ad altri personaggi. In esse Antonio ribadisce la vocazione a “uscire”
da tutto come Abramo e ad affaticarsi cercando il timore di Dio nella pazienza
e nella quiete. Lo Spirito di conversione viene in aiuto e insegna a lottare
contro l’avversario. Queste lettere sono un modello di teologia “pneumatica”;
lo Spirito vi appare continuamente nella sua dinamica: «Lo Spirito gli attesta
i suoi peccati affinché non vi ricada» .
Nella biografia, Atanasio
pone in bocca ad Antonio un lungo discorso, per così dire programmatico, della
vita ascetica: penitenza, preghiera, lotta accanita contro i demoni compiuta
soprattutto col segno della croce e col nome di Cristo; vivere giorno per
giorno, non volgersi indietro alla vita passata, tener fisso lo sguardo
all’eternità futura; un discorso molto più breve contro l’arianesimo; alcune
dispute con filosofi pagani.
Antonio appare come il
tipo del cristiano formato dalla Scrittura e dall’esperienza, opposto al tipo
del dotto educato nella cultura ellenistica.
Com’è noto, nella Vita
scritta da Atanasio occupa un posto eminente l’aspetto della lotta contro i
demoni, che appaiono in tutte le fogge e sono inventori di ogni sorta di
astuzie.
Il compilatore della
raccolta ha voluto evidentemente aprirla con un ritratto che si distinguesse
per una particolare esemplarità e pienezza. Per fare ciò non ha avuto bisogno
di aggiungere altri detti di Antonio che si trovano in altre raccolte, tanto è
vasta e molteplice la gamma di questi. Ci dipinge infatti con semplicità e forza la
giornata di un monaco del deserto: giornata di solitudine, preghiera, lavoro,
tentazioni.
Non è possibile né
elencare né riassumere le innumerevoli testimonianze rese ad Antonio dalla
tradizione. Basti accennare a due fra le tante: l’autore di storia
ecclesiastica Socrate dice che egli aveva
gli occhi degli angeli, attraverso cui si vede Dio e si coglie la sua luce;
nel Commento al Vangelo di Matteo, Giovanni Crisostomo inserisce una grande
lode di Antonio: ‘’Si consideri il grande
e beato Antonio, cui va ancora oggi l’ammirazione di tutto il mondo e che, nato
in Egitto, è divenuto quasi uguale agli apostoli. Ricordiamoci che quest’uomo
santo è nato nella terra dei faraoni, senza che da questi gli derivasse alcun
danno. Anzi, egli è stato ben degno della visione divina e la sua vita non è
stata altro che l’esatta manifestazione di quanto Gesù Cristo aveva comandato.’’
Possiamo concludere il
ritratto di Antonio con le parole del card. Newman: ‘’La sua dottrina è certamente pura e inattaccabile, il suo carattere è
nobile e celeste, senza viltà, senza malinconia, senza formalismo e senza
compiacenza in se stesso… Antonio è pieno di santa fiducia, di pace divina, di
gaiezza e di coraggio.’’.
GLI APOFTEGMI DI ANTONIO IL GRANDE
I
suoi apoftegmi ci danno la misura della sua santità e il senso del suo
insegnamento.La sua non è stata una forma di religiosità strana, ma il tentativo complessivo e costante di vivere in maniera cristiana autentica: la sequela di Cristo.
Il monaco, infatti, pur piangendo i suoi peccati e praticando la compunzione, vuole rivivere in sé il Vangelo di Cristo.
Il suo eremitismo, non è certamente stato una fuga dalla Chiesa, ma dal mondo: il monaco resta parte viva della Chiesa sempre e in ogni luogo; il suo isolamento è solo un modo per ritrovare quell'interiorità che il mondo gli impedisce di coltivare.
Per poter ascoltare la Parola di Dio occorre far tacere le parole del mondo, che con il loro frastuono ci assordano i sensi e la coscienza!
Passiamo
ora al primo apoftegma, cercando di comprenderlo in tutta la sua profondità e
di applicarne l’insegnamento nella nostra vita pratica…
- Un giorno il santo padre Antonio, mentre sedeva nel deserto, fu preso da sconforto e da una fitta oscurità di pensieri. E diceva a Dio: «O Signore! Io voglio salvarmi, ma i pensieri me lo impediscono. Che posso fare nella mia tribolazione? Come mi salverò?». Ed ecco che, sporgendosi un po’, Antonio vede un altro come lui, che sta seduto e lavora, poi interrompe il lavoro, si alza in piedi e prega, poi di nuovo si mette seduto a intrecciare corde, e poi ancora si alza e prega. Era un angelo del Signore, mandato per correggere Antonio e dargli forza. E udì l’angelo che diceva: «Fa’ così e ti salverai». All’udire quelle parole provò grande gioia e coraggio e così facendo si salvò.
Sono
molti gli insegnamenti che possiamo trarre da questo primo apoftegma.
Innanzitutto
vediamo la sua posizione ‘’seduto nel
deserto’’, ciò indica raccoglimento, perseveranza nelle tentazioni,
tranquillità nella preghiera.
Non
dimentichiamo che esiste una ben precisa tradizione cristiana sull’atteggiamento
del corpo nella preghiera: stando seduto il monaco lavora e medita, per pregare
si alza in piedi e leva le mani al cielo, oppure si inginocchia. Oggi, invece,
facciamo una grande, enorme fatica ad inginocchiarci, mentre seguiamo con
grande facilità le posizioni della spiritualità orientale: posizione Yoga,
posizione zen…, ma i magi per adorare il Bambino Gesù si prostrarono… è dunque
questa la posizione per eccellenza per pregare e adorare.
Vediamo
ora lo stato d’animo di Antonio: akedìa, cioè noia, tristezza, sconforto, scoraggiamento,
abulia, disgusto della vita, stanchezza della preghiera e delle cose
spirituali, svogliatezza nei confronti di Dio e del mondo.
Nella
completa solitudine è facile cadere preda dei propri pensieri, che possono
torturare e uccidere.
La
prima fatica da fare è dunque quella per dominare i propri pensieri, dominare quella malattia che assale l’anima dell’uomo
con tristezza, angoscia, disperazione.
Antonio
aveva capito che i pensieri sono la sostanza stessa della tentazione, infatti
la tentazione è un pensiero che si impossessa della mente, la polarizza e la
irretisce.
Quanto
attuale è questa situazione, basti pensare a tutte quelle situazioni
esistenziali di disagio tanto giovanile tanto senile che sfociano poi nel
suicidio, nella chiusura al mondo e a Dio.
Quanto
è facile sprofondare nella stanchezza della vita, nello scoraggiamento, nel
tedio delle cose spirituali.
Lo
stile di vita che l’angelo propone ad Antonio è quello che poi san Benedetto
codificò in ‘’ora et labora’’,
alternanza di lavoro e preghiera e durante il lavoro orientare il pensiero a
Dio, ruminando alcuni passi del Vangelo.
La
nostra vita deve essere, dunque, divisa adeguatamente fra lavoro e preghiera,
senza trascurare le relazioni umane, infatti il sabato e la domenica i monaci
si riunivano per celebrare l’Eucarestia e per condividere riflessioni.
Questo
stile di vita non permetteva solo ai monaci di salvarsi, ma ad ogni cristiano
che voglia dare forma e pienezza alla sua esistenza, perché, in questi nostri
tempi…
è togliendo che si ottiene di più!
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