sabato 11 gennaio 2014




LOTTE E TENTAZIONI DEI PADRI DEL DESERTO

Col nome di Padri del deserto si indicano quei monaci, eremiti e anacoreti che  nel IV secolo, dopo la pace costantiniana, abbandonarono le città per vivere in solitudine nei deserti d'Egitto, di Palestina e di Siria. Il primo di questi anacoreti fu Antonio il Grande, affettuosamente da noi chiamato ‘’Sant’Antoun’’, che festeggiamo il 17 gennaio, ma del quale conosciamo così poco.

Nell'ascesi solitaria, i Padri (abba) cercavano la via dell' hesychia, della pace interiore. Testimoni di una fede cristiana vissuta con radicalità, ebbero numerosi discepoli, pur continuando a vivere in assoluta solitudine.

Furono proprio loro, in diverse epoche, a mettere in forma di racconto i detti e le azioni dei santi anziani, con uno stile semplice e disadorno, perché essi miravano a quest’unico scopo: l’edificazione di molti, perché l’anima ricavi da tutto edificazione, e si diletti delle parole degli anziani più dolci del miele e del succo dei favi  e noi, vivendo in modo degno della chiamata del Signore, raggiungiamo il suo Regno.

I loro detti o apoftegmi, in cui traspaiono sapienza evangelica e arguzia umana, furono tradotti in varie lingue.
 

ANTONIO IL GRANDE

Se le date tramandate dalla tradizione sono esatte, visse più di 100 anni, dal 250-51 al 356. Francisco de Zurbarán, San Antonio Abad, 1664
Era nativo di un villaggio copto; di famiglia cristiana, di cultura semplice e limitata.
«Frequentava con i genitori la chiesa… era sottomesso ai genitori» (Vita Antonii, 1, 3), era un giovane molto pio. Rimase presto orfano, solo con una sorellina: «Aveva 18 o 20 anni e si prendeva cura della casa e della sorella» (ibid., 2, 1). Pochi mesi dopo, sentì irresistibilmente rivolta a lui la parola del Signore al giovane ricco, che udì leggere in chiesa: «Se vuoi essere perfetto va’, vendi tutto quello che possiedi, dallo ai poveri, e avrai un tesoro nei cieli, poi vieni e seguimi» (cf. Mt 19, 21). Questa frase lui la sentì rivolta a se stesso e così, per gradini successivi, si diede a una vita di preghiera e penitenza, prima in casa; poi dopo aver affidato la sorella «a delle vergini fedeli, che ben conosceva, perché fosse allevata nella verginità» iniziò una vita più solitaria nelle vicinanze del villaggio, poco distante da Alessandria, seguendo l’esempio e l’insegnamento di un vecchio asceta che viveva da quelle parti.

Vi erano infatti già persone che, da sole o in piccoli gruppi, consacravano tutta la loro vita al Signore nella verginità, penitenza e preghiera. Ma il fenomeno non aveva ancora raggiunto né particolari dimensioni, né l’aspetto di esodo dai luoghi abitati che si verificò sulla scia di Antonio; a buon diritto, quindi, egli ha avuto il titolo di padre del monachesimo. Il suo rapporto con quell’anziano, congiunto alla ricerca di qualche contatto con gli uomini amanti di Cristo, è una testimonianza viva di un punto essenziale della vita ascetica: il doversi mettere a scuola, il non poter iniziare senza maestro.

Seguì poi il ritiro di Antonio più lontano dal mondo, in una delle tante tombe di una regione disseminata di sepolcri. Qui visse fino all’età di 35 anni, per inoltrarsi quindi nel deserto e insediarsi a Pispir, in un fortino semidistrutto e qui vi resta per circa vent’anni.

La via all’eremitismo è una chiamata di Dio, una grazia che presuppone la natura, non la distrugge.

È una vita molto dura perché significa restare solo tutto il giorno con Dio, con i propri pensieri e con le tentazioni demoniache; sicuramente, però, è una vita di valore perché essa da sola testimonia la presenza di Dio: come farebbe un uomo a vivere da solo se non avesse il rapporto con Dio?

La sua fama, intanto, diventa sempre più grande, e sempre più numerosa la gente che vuole udire da lui qualche parola. Frattanto cresce in lui il desiderio di una solitudine sempre maggiore  e quello del martirio, per questo, durante le persecuzioni di Diocleziano e Massimiano, si recò ad Alessandria sperando di essere anch’egli martirizzato, ma non avvenne così. «Serviva tuttavia i martiri nelle miniere e nelle carceri e, assistendo ai processi, con i suoi discorsi esortava appassionatamente i lottatori perché avessero più pronta buona volontà al martirio» (ibid., 46, 3).

Se non potè realizzare la sua aspirazione a testimoniare la sua fede col suo sangue, capì che era possibile seguire Cristo, nudo, povero, obbediente vivendo il martirio in forma ascetica.

Così, quando la persecuzione si placò, Antonio ritornò nella sua solitudine, ove «subiva ogni giorno il martirio del corpo con l’austerità della sua vita e della coscienza per le lotte che sosteneva contro le tentazioni» (ibid., 47, 1).

È questa la lotta alla quale siamo chiamati tutti: il martirio della carne, la crocifissione dell’uomo vecchio per avere come premio la vita eterna.

Dato che molti lo cercavano per ascoltare le sue parole, si allontanò dal Nilo inoltrandosi ancor più

Grotta in cui viveva Antonio,
sul monte che domina il  suo monastero
 
nel deserto, verso est, in direzione del Mar Rosso, per fermarsi «in monte interiore» (ibid., 51, 1), nella parte, cioè, più interna di una montagna che ancora oggi porta il nome di
monte di S. Antonio, monte da cui si può vedere il Sinai. Questo fu l’ultimo luogo di soggiorno di Antonio, che egli non lasciò più se non per recarsi una seconda volta ad Alessandria, sollecitato dal vescovo Atanasio a intervenire a suo sostegno, assieme ad altri, in favore dell’ortodossia nella lotta contro gli ariani. Tornò presto nel luogo della sua solitudine  ove, negli ultimi anni della sua vita, compì grandi prodigi. Previde la sua morte e ordinò ai due fedeli discepoli di seppellire il suo corpo in luogo sconosciuto a tutti, perché non avvenisse – come soleva accadere – che in eccessi di devozione i fedeli lo rubassero.


A chi gli chiedeva perché si fosse ritirato nel deserto, egli rispondeva: ‘’Sono venuto  a piangere i miei peccati’’.

È questo uno dei maggiori insegnamenti che ci vengono da lui che non faceva altro che piangere i suoi peccati e tenere nascosti i suoi doni, contrariamente a quanto facciamo noi  che, influenzati dalla povertà e superficialità spirituale del nostro tempo, nascondiamo i peccati e mettiamo in evidenza i doni.

Suo cibo quotidiano era la Scrittura, che ruminava da mattina a sera e che conosceva a memoria per buona parte.

Questi sono i dati essenziali di una vita che si sviluppa in modo organico verso una solitudine e un’immersione in Dio sempre più grandi, pur non potendo Antonio evitare un certo numero di contatti spirituali con persone che venivano a cercarlo.

La Vita Antonii, scritta da Atanasio poco dopo la morte del grande eremita, ebbe subito un grandissimo successo, com’è provato dalla testimonianza di Agostino alla cui conversione contribuì fortemente (cf. Conf., VIII, 6, 14ss.) e dal fatto che in breve fu tradotta in latino, copto, armeno, siriaco, arabo, etiopico e georgiano, e da numerose altre tracce del suo vasto influsso.

Dalla Vita e da altre fonti risulta che Antonio  dettò sette lettere ai monaci e alcune altre lettere di risposta all’imperatore, al vescovo, ad altri personaggi. In esse Antonio ribadisce la vocazione a “uscire” da tutto come Abramo e ad affaticarsi cercando il timore di Dio nella pazienza e nella quiete. Lo Spirito di conversione viene in aiuto e insegna a lottare contro l’avversario. Queste lettere sono un modello di teologia “pneumatica”; lo Spirito vi appare continuamente nella sua dinamica: «Lo Spirito gli attesta i suoi peccati affinché non vi ricada» .

Nella biografia, Atanasio pone in bocca ad Antonio un lungo discorso, per così dire programmatico, della vita ascetica: penitenza, preghiera, lotta accanita contro i demoni compiuta soprattutto col segno della croce e col nome di Cristo; vivere giorno per giorno, non volgersi indietro alla vita passata, tener fisso lo sguardo all’eternità futura; un discorso molto più breve contro l’arianesimo; alcune dispute con filosofi pagani.

Antonio appare come il tipo del cristiano formato dalla Scrittura e dall’esperienza, opposto al tipo del dotto educato nella cultura ellenistica.

Com’è noto, nella Vita scritta da Atanasio occupa un posto eminente l’aspetto della lotta contro i demoni, che appaiono in tutte le fogge e sono inventori di ogni sorta di astuzie.

Il compilatore della raccolta ha voluto evidentemente aprirla con un ritratto che si distinguesse per una particolare esemplarità e pienezza. Per fare ciò non ha avuto bisogno di aggiungere altri detti di Antonio che si trovano in altre raccolte, tanto è vasta e molteplice la gamma di questi.  Ci dipinge infatti con semplicità e forza la giornata di un monaco del deserto: giornata di solitudine, preghiera, lavoro, tentazioni.

Non è possibile né elencare né riassumere le innumerevoli testimonianze rese ad Antonio dalla tradizione. Basti accennare a due fra le tante: l’autore di storia ecclesiastica Socrate dice che egli aveva gli occhi degli angeli, attraverso cui si vede Dio e si coglie la sua luce; nel Commento al Vangelo di Matteo, Giovanni Crisostomo inserisce una grande lode di Antonio: ‘’Si consideri il grande e beato Antonio, cui va ancora oggi l’ammirazione di tutto il mondo e che, nato in Egitto, è divenuto quasi uguale agli apostoli. Ricordiamoci che quest’uomo santo è nato nella terra dei faraoni, senza che da questi gli derivasse alcun danno. Anzi, egli è stato ben degno della visione divina e la sua vita non è stata altro che l’esatta manifestazione di quanto Gesù Cristo aveva comandato.’’

Possiamo concludere il ritratto di Antonio con le parole del card. Newman: ‘’La sua dottrina è certamente pura e inattaccabile, il suo carattere è nobile e celeste, senza viltà, senza malinconia, senza formalismo e senza compiacenza in se stesso… Antonio è pieno di santa fiducia, di pace divina, di gaiezza e di coraggio.’’.
 
GLI APOFTEGMI DI ANTONIO IL GRANDE
I suoi apoftegmi ci danno la misura della sua santità e il senso del suo insegnamento.
La sua non è stata una forma di religiosità strana, ma il tentativo complessivo e costante di vivere in maniera cristiana autentica: la sequela di Cristo.
Il monaco, infatti, pur piangendo i suoi peccati e praticando la compunzione, vuole rivivere in sé il Vangelo di Cristo.
Il suo eremitismo, non è certamente stato una fuga dalla Chiesa, ma dal mondo: il monaco resta parte viva della Chiesa sempre e in ogni luogo; il suo isolamento è solo un modo per ritrovare quell'interiorità che il mondo gli impedisce di coltivare.
Per poter ascoltare la Parola di Dio occorre far tacere le parole del mondo, che con il loro frastuono ci assordano i sensi e la coscienza!
Passiamo ora al primo apoftegma, cercando di comprenderlo in tutta la sua profondità e di applicarne l’insegnamento nella nostra vita pratica…

  1. Un giorno il santo padre Antonio, mentre sedeva  nel deserto, fu preso da sconforto e da una fitta oscurità di pensieri. E diceva a Dio: «O Signore! Io voglio salvarmi, ma i pensieri me lo impediscono. Che posso fare nella mia tribolazione? Come mi salverò?».      Ed ecco che, sporgendosi un po’, Antonio vede un altro come lui, che sta seduto e lavora, poi interrompe il lavoro, si alza in piedi e prega, poi di nuovo si mette seduto a intrecciare corde, e poi ancora si alza e prega. Era un angelo del Signore, mandato per correggere Antonio e dargli forza. E udì l’angelo che diceva: «Fa’ così e ti salverai». All’udire quelle parole provò  grande gioia e coraggio e  così facendo si salvò.

Sono molti gli insegnamenti che possiamo trarre da questo primo apoftegma.

Innanzitutto vediamo la sua posizione ‘’seduto nel deserto’’, ciò indica raccoglimento, perseveranza nelle tentazioni, tranquillità nella preghiera.

Non dimentichiamo che esiste una ben precisa tradizione cristiana sull’atteggiamento del corpo nella preghiera: stando seduto il monaco lavora e medita, per pregare si alza in piedi e leva le mani al cielo, oppure si inginocchia. Oggi, invece, facciamo una grande, enorme fatica ad inginocchiarci, mentre seguiamo con grande facilità le posizioni della spiritualità orientale: posizione Yoga, posizione zen…, ma i magi per adorare il Bambino Gesù si prostrarono… è dunque questa la posizione per eccellenza per pregare e adorare.

Vediamo ora lo stato d’animo di Antonio: akedìa, cioè noia, tristezza, sconforto, scoraggiamento, abulia, disgusto della vita, stanchezza della preghiera e delle cose spirituali, svogliatezza nei confronti di Dio e del mondo.

Nella completa solitudine è facile cadere preda dei propri pensieri, che possono torturare e uccidere.

La prima fatica da fare è dunque quella per dominare i propri pensieri, dominare quella malattia che assale l’anima dell’uomo con tristezza, angoscia, disperazione.

Antonio aveva capito che i pensieri sono la sostanza stessa della tentazione, infatti la tentazione è un pensiero che si impossessa della mente, la polarizza e la irretisce.

Quanto attuale è questa situazione, basti pensare a tutte quelle situazioni esistenziali di disagio tanto giovanile tanto senile che sfociano poi nel suicidio, nella chiusura al mondo e a Dio.

Quanto è facile sprofondare nella stanchezza della vita, nello scoraggiamento, nel tedio delle cose spirituali.

Lo stile di vita che l’angelo propone ad Antonio è quello che poi san Benedetto codificò in ‘’ora et labora’’, alternanza di lavoro e preghiera e durante il lavoro orientare il pensiero a Dio, ruminando alcuni passi del Vangelo.

La nostra vita deve essere, dunque, divisa adeguatamente fra lavoro e preghiera, senza trascurare le relazioni umane, infatti il sabato e la domenica i monaci si riunivano per celebrare l’Eucarestia e per condividere riflessioni.

Questo stile di vita non permetteva solo ai monaci di salvarsi, ma ad ogni cristiano che voglia dare forma e pienezza alla sua esistenza, perché, in questi nostri tempi…
è togliendo che si ottiene di più!

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