FEDE E OPERE SECONDO LO STILE DI DIO
TRA
IL DIRE E IL FARE… C’È DI MEZZO L’AMORE!
Fra
le tante dispute mai terminate né mai superate c’ è sicuramente quella sulla
salvezza: ci si salva per fede o per le
opere buone?
Sono
tanti i riferimenti nei Vangeli che possono dare risposte a questa domanda,
eppure sembra che le interpretazioni a volte non siano concordi, ma
contraddittorie quasi, come se si smentissero a vicenda.
Alcuni
dei passi evangelici più discussi e controversi si trovano nelle lettere
di S. Paolo che, spesso, vengono
contrapposte alla lettera di S. Giacomo.
Papa
Benedetto XVI, in una sua catechesi, ha detto: ‘’Paolo
ci aiuta a capire il valore assolutamente
fondante e insostituibile della fede. Ecco che cosa scrive nella Lettera ai
Romani: «Noi riteniamo che l'uomo viene giustificato per la fede,
indipendentemente dalle opere della Legge» (3,28). E così pure nella Lettera ai
Galati: «L'uomo non è giustificato dalle opere della Legge, ma soltanto per
mezzo della fede in Gesù Cristo; perciò abbiamo creduto anche noi in Gesù
Cristo per essere giustificati dalla fede in Cristo e non dalle opere della
Legge, poiché dalle opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno»
(2,16).
«Essere
giustificati» significa essere resi giusti, cioè essere accolti dalla giustizia
misericordiosa di Dio, ed entrare in comunione con Lui e, di conseguenza, poter
stabilire un rapporto molto più autentico con tutti i nostri fratelli: e questo
sulla base di un totale perdono dei nostri peccati. … «Siamo giustificati gratuitamente per sua
grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù» (Rm 3,24).
A
tutto quello che dice il papa, possiamo anche aggiungere Romani 4,1-3: ‘’Che diremo dunque di Abramo, nostro antenato
secondo la carne? Se infatti Abramo è stato giustificato per le opere, certo ha
di che gloriarsi, ma non davanti a Dio. Ora, che cosa dice la Scrittura? Abramo
ebbe fede in Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia’’.
La
posizione di Paolo è molto chiara: ci si salva per fede.
Vediamo,
adesso, cosa dice nella sua lettera San
Giacomo al capitolo 2, 14-26: ‘’[14]Che giova,
fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che
quella fede può salvarlo? [15]Se un fratello o una sorella sono
senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano [16]e uno di voi
dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il
necessario per il corpo, che giova? [17]Così anche la fede: se non
ha le opere, è morta in se stessa. [18]Al contrario uno potrebbe
dire: Tu hai la fede ed io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, ed
io con le mie opere ti mostrerò la mia fede. [19]Tu credi che c'è
un Dio solo? Fai bene; anche i demòni lo credono e tremano! [20]Ma
vuoi sapere, o insensato, come la fede senza le opere è senza calore? [21]Abramo,
nostro padre, non fu forse giustificato per le opere, quando offrì Isacco, suo
figlio, sull'altare?[22]Vedi che la fede cooperava con le opere di lui,
e che per le opere quella fede divenne perfetta [23]e si compì la
Scrittura che dice: E Abramo ebbe
fede in Dio e gli fu accreditato a giustizia, e fu chiamato amico di
Dio. [24]Vedete che l'uomo viene giustificato in base alle opere e
non soltanto in base alla fede. [25]… [26] Infatti come il
corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta.’’.
Anche
in questo caso la posizione è piuttosto chiara: per San Giacomo l’uomo viene
giustificato in base alle opere.
Il
dilemma è dunque legittimo, sembra proprio che queste due posizioni si contrappongano,
si contraddicano e, di conseguenza, si annullino a vicenda.
Sembra,
come sempre.
Il
‘’sembrare’’, lo sappiamo, non è
sinonimo di Verità, ma di apparenza, indica cioè una situazione apparentemente
vera; l’apparenza non ha niente a che fare con la verità però.
E
allora?
Quale
delle due posizioni è quella giusta?
Dove
sta la verità?
Come
superare questa apparente
contraddizione?
Come
conciliare le due posizioni?
In
realtà, la risposta è già stata scritta nelle lettere dei due autori in
questione, basta leggerla con i loro occhi e con la loro esperienza, ma
soprattutto individuando l’intendo dei due ed inserendola nel contesto
socio-storico-religioso in cui viene espressa.
La
prima riflessione la facciamo sulle parole di S. Paolo nella lettera ai Galati:
«L'uomo non è giustificato dalle opere della Legge, ma soltanto per mezzo della fede in
Gesù Cristo; perciò abbiamo creduto anche noi in Gesù Cristo per essere
giustificati dalla fede in Cristo e non dalle opere della Legge, poiché dalle opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno»
(2,16).
La
parola-chiave, quella che apre al pensiero paolino sulla giustificazione, è ripetuta
più volte in questi versetti : le opere della Legge.
Paolo
non fa riferimento ad opere qualsiasi, ad opere buone o ad opere importanti, ma
a delle opere precise, quelle ‘’ della Legge’’.
Parlando
di Legge, ovviamente, si riferisce alla Legge di Mosè.
Ora,
la Legge di Mosè era prescrittiva, prescriveva, cioè, una serie di norme di
comportamento che regolavano la fede, ma anche il vivere sociale, la
quotidianità antropologica (rapporti, relazioni, comportamenti per ogni
situazioni di vita…)
La
Legge di Mosè è stata, per secoli e secoli, un punto di riferimento
indiscutibile per il popolo ebreo.
I
Giudei, in particolari, erano tra i più osservanti di tale Legge.
La
Legge di Mosè aveva assunto, però, nel tempo, un significato che non le era più
proprio: era stata ridotta ad una serie
di regole alle quali ci si atteneva con un’osservanza meccanica e sterile, rigida, più
attenta all’esteriorità che all’interiorità della persona stessa.
La
Legge, in un certo senso, era stata ‘’mondanizzata’’, si era fatta cioè ‘’Legge del mondo’’, non
più ‘’Legge divina’’, operava perlopiù sul piano della mondanità, dell’esteriorità,
dell’osservanza effimera finalizzata al ‘’mostrare’’ piuttosto che
‘’all’essere’’.
La
Legge non intaccava più il cuore degli Ebrei ed invece di unire l’uomo con Dio,
era diventata strumento di divisione fra l’uomo e Dio e fra gli uomini stessi.
Sono noti i rigorismi e la puntigliosa scrupolosità a cui erano
abituati i vari gruppi interni al giudaismo: sadducei, farisei, zeloti… gruppi
che curavano gli aspetti formali e l’osservanza della Legge con uno zelo
estremo, limitate però alle norme di purità, al pagamento delle tasse o
all’osservanza del sabato… come sono note anche la superbia dei sadducei,
l’osservazione ferrea della tradizione ebraica da parte dei farisei che si
esprimeva nell’ostentazione dei loro gesti, la loro presunzione di perfezione e
la loro intolleranza verso coloro che venivano considerati impuri, perché non
rispettosi della Legge mosaica; la contrapposizione degli Esseni, che si consideravano la casta dei ‘’puri’’,
verso i Samaritani considerati i più impuri, per la promiscuità della loro
religione tra giudaismo e paganesimo… com’è noto anche l’odio che ne derivava
tra i vari gruppi, i quali, avendo
ridotto la Legge a pura adesione formale ed esteriore, l’avevano fatta
diventare una Legge forense, in base alla quale si emettevano giudizi, vere e
proprie sentenze giudiziarie; infine, l’avevano trasformata in una legge discriminante tra gli
stessi gruppi giudaici del tempo.
Ma c’è di peggio: più si era osservanti della
Legge più si rifiutava Cristo e il suo messaggio salvifico, la rivoluzione cioè
avvenuta con l’avvento di Cristo, la sua Passione, Morte e Resurrezione.
Gesù aveva insegnato un nuovo modo di vivere, aveva
lasciato un comandamento nuovo che era quello dell’Amore.
Questo modo nuovo di vivere richiedeva un uomo nuovo che doveva abbandonare il
vecchio stile di vita, non perché la Legge di Mosè non fosse più valida, ma
perché era avvenuto qualcosa di nuovo che portava a compimento la stessa Legge:
la resurrezione di Cristo era la pietra d’angolo che reggeva tutta la
Legge, la rinnovava senza modificarla nella sostanza, la faceva nuova senza
cancellare nulla del vecchio, la rinnovava spiritualmente perché era stata
sigillata con il sangue di un Dio.
Tutto questo, però, i Giudei non lo accettavano,
rifiutavano, come sappiamo, la resurrezione di Cristo, come rifiutavano Cristo stesso
quale Dio e Figlio di Dio.
Paolo si muove, dunque, in un quadro teologico
squisitamente dottrinale, il suo intento, infatti, era questo: far capire loro
che era avvenuto qualcosa di grande che aveva cambiato la Storia dell’Umanità: la
fede adesso doveva essere riposta in Cristo, nuovo Adamo, nuovo Mosè, che con
il Suo Sangue aveva operato la salvezza
dell’Umanità.
Ciò che a Paolo interessava era far capire loro
che nessuna pratica esteriore li avrebbe mai salvati, ma l’accettare Cristo
come Dio che con la sua morte e resurrezione aveva restaurato ogni cosa, aveva
fatto nuova ogni cosa.
In questo contesto, le parole di Paolo sono
pienamente giustificate, a lui premeva evidenziare la centralità dell’azione
salvifica di Cristo, che era una novità assoluta nella Storia degli Ebrei e che
andava a rivoluzionare l’intero assetto religioso fin a quel momento vissuto.
Il contesto di opposizione, di rifiuto, di
negazione dell’opera redentrice di Cristo richiedeva una presa di posizione
forte, chiara e decisa da parte di Paolo, capace di smuovere dall’immobilismo
teorico ed intellettualistico per riportate la fede a qualcosa di molto più
concreto: un’adesione totale ad una Persona viva e vera che aveva rivoluzionato
il tempo e lo spazio.
Il senso del pensiero paolino può
essere sintetizzato in questa affermazione “… se la giustificazione viene
dalla Legge, Cristo è morto invano” (Gal. 2,21).
La Legge di Mosè e la redenzione operata da Cristo appartengono ad un unico
progetto di salvezza, per questo non si annullano, ma si completano a vicenda.
La difficoltà era proprio convincere in quanto a questo, far accettare i
nuovi eventi che superavano i primi in quanto a potenza e significato.
La resurrezione di Cristo, avvenuta nella pienezza dei tempi, altro non era
se non la pienezza della Legge stessa: ma far accettare questo era un’impresa
impossibile; ciononostante, Paolo afferma ‘’guai
a me se non annunciassi il Vangelo’’; lui, che aveva perseguitato i
cristiani in nome di quella Legge e che aveva vissuto, poi, personalmente la
rivoluzione del cuore, operata con forza e potenza dal Cristo Risorto, non
poteva tacere di fronte alla Verità.
Per
affermare quella Verità, il cui annuncio (il Kerygma che è "potenza di Dio
per chiunque crede") tanti, da
Duemila anni a questa parte, hanno
pagato e continuano a pagare con la vita.
S.
Giacomo si muove, invece, in un quadro teologico di tipo etico, morale, esortativo,
per questo non solo non annulla nulla di quanto viene detto da Paolo, ma ne
prolunga e ne amplia il significato stesso dei suoi discorsi, sempre in
perfetta sintonia con lui.
Vediamo,
infatti, come S. Giacomo parla di ‘’opere
buone’’, non fa riferimento alle ‘’opere
della Legge’’: siamo su due livelli completamente diversi.
Paolo
stesso aveva condannato lo sterilismo della Legge per come veniva vissuta ai
suoi tempi dai Giudei, non certo quelle opere buone che sono legittima conseguenza di una fede viva, alla quale fa
riferimento S. Giacomo nella sua lettera.
La
contraddizione, quindi, non esiste né sul piano ideologico né su quello
teologico, né su quello sacramentale né su quello scritturistico, semplicemente perché l’intendo dottrinale dell’uno
(Paolo) è quello di spingere ad orientare la propria vita verso Dio ed aprirsi
esistenzialmente alla sua proposta salvifica, unica via per accedere alla
giustificazione; va da sé che le opere, cioè lo stile di vita, accompagnino
questa scelta del credente; l’intendo etico dell’altro (Giacomo) è quello di far capire che la fede deve permeare l’intera vita del
cristiano e deve essere testimoniata attraverso le opere.
Giacomo, in realtà, si pone come un pastore che si rivolge ad una comunità
il cui vivere è in netta dissonanza con quanto credono, per questo sottolinea
con forza che le opere devono essere il
corpo visibile della fede, nel senso che la fede deve concretizzarsi in un
chiaro stile di vita cristiano e lo deve caratterizzare.
La fede è tutto ciò in cui il cristiano crede e a cui deve conformare anche
la sua vita perché la sua fede non si riduca ad un semplice atto intellettuale,
così come era accaduto per i Giudei.
Il suo timore era che la “fides
qua creditur”, cioè la fede per mezzo della quale si crede e sulla quale il
credente modella la sua vita, non si trasformi semplicemente in un vacuo “fides
quae creditur”, cioè una semplice serie di verità a cui aderire
intellettivamente, ma dalle quali la concretezza del vivere è ben lontana.
Giacomo non squalifica, dunque, affatto la fede, intesa come apertura
esistenziale a Dio per mezzo di Cristo, quanto piuttosto, spingendo il credente
a conformare il proprio vivere alle verità-realtà che palpitano in lui in virtù
del battesimo, avvalora la stessa fede.
Non c’è dunque nessuna contraddizione tra Paolo e Giacomo, ma soltanto due
intendi diversi: aprire alla fede, per l’uno; vivere la fede per l’altro.
S.
Giacomo conferma pienamente che la salvezza viene da Cristo, ma aggiunge che
l’uomo deve cooperare a questa salvezza con le sue opere buone.
Si
tratta di una cooperazione all’opera di Cristo, non certamente di un presunto potere
salvifico delle opere umane.
Nessun’opera
umana ha o avrà mai questo potere: solo Dio salva!
Questo
è molto chiaro ed indiscutibile in entrambi.
Anche
su Abramo i due concordano pienamente: egli ha creduto per fede, si è affidato
completamente alle Promesse di Dio; una tale fede lo ha portato ad agire in un
certo modo, cioè in assoluta obbedienza al comando di Dio: lascia la tua Terra e va’ dove ti manderò!
Abramo
ha obbedito ed ha agito di conseguenza e questa obbedienza gli è stata
accreditata come giustizia.
Alla
fede sono seguite le azioni: quale conseguenza del suo SÌ c’è stato il suo partire.
Così
come la conseguenza del suo sì alla richiesta del sacrificio del figlio Isacco lo
ha portato sul monte, dove, preparato un altare, era pronto ad obbedire alla
richiesta di immolazione del figlio, se non fosse intervenuta la misericordia
di Dio: ora so che tu mi ami!
La
fede muove dunque le opere buone.
Le
opere della fede, a cui fa riferimento
S. Giacomo, non hanno niente a che fare con le opere della Legge, a cui fa
riferimento S. Paolo.
Il
Sì di Abramo come il Sì di Maria hanno
risposto alla Legge del cuore che ha generato in loro opere gradite a Dio, quale
risposta della creatura all’invito del
Creatore che li ha chiamati a mettere in gioco tutto ciò in cui credevano.
Queste
opere, naturalmente, sono benedette da Dio, perché testimoniano una fede viva
in una Persona Viva.
Dobbiamo
quindi fare un distinguo tra le ‘’opere
della Legge’’ che avevano trasformato i Giudei in sepolcri imbiancati, cioè uomini morti, per
una fede fatta di gesti esteriori, ma spiritualmente morta, vacua,
insignificante, non incarnata; e le opere vive della Legge del cuore, come hanno concretamente dimostrato Abramo e Maria,
nei quali la Parola ha acceso il cuore e rivitalizzato lo spirito, che è stato
innalzato a Dio in un canto di lode, conseguenza di quell’azione di Grazia che ha agito in loro
e a cui hanno risposto con pronta e totale obbedienza.
Le
prime portano, quindi, ad opere sterili e non gradite a Dio, le secondo ad
opere feconde e gradite a Dio.
Le
opere della Grazia introducono al ‘’modus
operandi’’ di Dio, che non sempre è chiaro ed immediatamente comprensibile.
Spesso
resta un mistero insormontabile, indefinibile, inaccessibile, incomprensibile, per
questo solo una fede viva permette di aderirvi in pienezza e in totale
abbandono alla Sua Volontà.
È
la nostra risposta alla sua Grazia, dunque, che cambia il senso delle opere
compiute.
Le
opere buone di S. Giacomo sono risposte d’amore ad un invito dettato
direttamente al cuore; non più adesione ad una legge scritta sulla pietra che aveva,
nel corso del tempo, pietrificato il cuore stesso dell’uomo, ma un’adesione ad una
Persona che rivoluziona il cuore.
E se è vero, ancora, che la Parola si spiega con la Parola, questo
ci dà la certezza assoluta che Paolo e Giacomo non sono e non saranno mai in
contrapposizione; le loro parole non vanno lette in contrapposizione, ma come
ampliamento di un concetto piuttosto vasto e complesso quale è quello della
fede.
Se volessimo individuare un preciso percorso spirituale che porta
alla risposta d’amore della creatura verso il Creatore e quindi alla
realizzazione di buone opere, potremmo così sintetizzarlo:
- la prima
condizione è il CREDERE
- la seconda
riguarda il COME CREDERE?
Ø Credere per fede.
- la terza: IN CHI CREDERE?
Ø In Cristo Gesù.
- la quarta: CHE
COSA CREDERE?
Ø Che Lui ci ha salvati con la sua morte e resurrezione.
- Conclusione: La
salvezza è dunque un dono gratuito dato per Grazia, realizzato attraverso
un evolversi di eventi storici ben precisi che hanno portato alla
resurrezione dell’Uomo-Dio chiamato Gesù, incarnatosi nel seno della
Vergine Maria.
La nostra, dunque, è una fede incarnata.
Questo significa che la fede non è una teoria, non è un’obbedienza
a dei concetti astratti, ma un’adesione ad una Parola fattasi Carne, che agisce
sulla Storia di tutti e di ciascuno, nel tessuto infinito del tempo.
La salvezza, come ci dice Paolo, è dono di Grazia, dono divino,
dataci da Cristo, il Dio fattosi Uomo per la redenzione del mondo.
Nessuna osservanza ferrea della Legge potrebbe mai uguagliare l’ampiezza,
la profondità e la grandezza di questo Dono, né mai paragonarsi negli effetti: solo
la fede vera e l’adesione libera e spontanea del cuore alla Volontà di Dio…
salva!
Dice Madre Teresa di Calcutta:
‘’La fede porta all’amore. L’amore porta al servizio. Il servizio porta alla
pace.’’
Le opere, dunque, compiute secondo la logica di Dio, portano i
frutti tipici di Dio: pace, misericordia, amore, servizio.
Tutto questo rende viva la fede.
Senza di questo, la fede è morta, semplicemente perché non è vera
fede; una fede fatta di apparenze non serve a niente perché, in realtà, non ha
niente a che fare con la fede vera, si è su un piano completamente diverso.
Giacomo, dunque, non solo non annulla affatto quanto detto da
Paolo, non può che essere d’accordo con lui, ma
aggiunge un’ ulteriore conquista dello spirito: individua nelle opere
buone la risposta, per fede, all’amore di Dio.
C’è un passaggio molto
sottile nella sua lettera che chiarisce ogni cosa: [21]Abramo, nostro padre, non fu forse giustificato per le
opere, quando offrì Isacco, suo figlio, sull'altare?[22]Vedi che la fede cooperava con le opere di lui, e che per
le opere quella fede divenne perfetta [23].
Giacomo
non dice che la fede non serve a nulla e che bastano solo le opere, dice,
invece, che c’è una
COOPERAZIONE tra opere e fede che rende perfetta quest’ultima; la risposta di
Abramo alla richiesta di Dio ha dato la misura della sua fede.
Egli
ha sacrificato tutte le sue certezze ed era pronto anche a sacrificare suo
figlio pur di dimostrare a Dio il suo amore e la sua totale obbedienza.
Ciò
che lui ha fatto, è stato solo espressione consequenziale della fede che si
portava nel cuore.
Giacomo
non dice né che basta solo la fede né
che bastano solo le opere, ma che fra la fede e le opere c’è una ‘’cooperazione’’,
su tale cooperazione si viene giustificati, si diventa cioè uomini giusti al
cospetto di Dio e in questo essere giusti al suo cospetto si compie la salvezza
dell’uomo, già operata da Cristo come dono per tutta l’Umanità.
Se
Paolo evidenzia il cuore della questione: la salvezza viene da Cristo; Giacomo
lo completa: Cristo ci ha salvati una volta e per sempre e noi possiamo
cooperare a questa economia della salvezza compiendo le opere del cuore, della
misericordia, dell’amore, in obbedienza al Comandamento nuovo: ‘’Amatevi
come io vi ho amati’’.
È
solo l’uomo nuovo, riscattato per Grazia, che può comprendere l’altezza e la
profondità di questa Nuova Legge.
Di
conseguenza: se credo per fede che sono salvato dal sacrificio di Cristo, non
posso non sentire quel debito d’amore che questo credere porta in sé; se sento
in me questo debito, non posso non operare cose buone, quale risposta all’amore
incondizionato di un Dio fattosi Uomo e morto per me.
Ecco
che quelle ‘’opere’’ a cui fa riferimento Giacomo, acquistano un valore
completamente diverso rispetto a quelle menzionate da Paolo; se la fede è in me, vuol dire che Cristo è in
me (come afferma Paolo) e se Cristo è in me non posso non compiere opere giuste
ai suoi occhi, altrimenti sarebbe questa la vera contraddizione: non posso essere
in Cristo e non potrebbe essere Cristo in me se la mia vita non è espressione
viva di questa co-abitazione d’amore.
La
mia fede mi porta a compiere opere buone che mi verranno accreditate come
giustizia davanti a Dio.
È
il bagaglio che si porta con sé come risposta a quel debito d’amore contratto
con Dio.
Dio
è Uno che osa rischiare, potremmo definirlo quasi ‘’un Giocatore d’azzardo’’: la sua pedagogia richiede che l’uomo, in
qualche modo, partecipi liberamente all’opera della salvezza, Dio scommette sull’uomo
lasciandolo libero di aderire o meno al suo progetto di salvezza.
Il
suo ‘’azzardo’’ sta nella libertà concessa all’uomo, creatura imperfetta, a
quell’ uomo che non è ‘’puro spirito’’, ma un campo di battaglia quotidiana tra
il Bene e il Male ed è una battaglia senza esclusioni di colpi.
Il
rischio che Dio ha scelto di correre è dunque grosso: l’amore è e deve essere Libertà,
nessuno può costringere ad amare, un amore forzato o imposto contraddice il
concetto stesso di Amore quale ‘’libero
dono di sé’’.
Ricapitolando:
la Salvezza, è chiaro, viene da Cristo; con la Sua Morte e Resurrezione Egli ha
restaurato l’intera Creazione, salvando anche la carne immersa nel peccato.
La
salvezza non è un automatismo, però, è offerta a tutti come dono, pertanto va
desiderata e richiesta.
Il
Signore la concede con grande gioia a quanti gliela chiedono.
Questo
vuol dire che una volta operata la salvezza
in seguito al sacrificio di Cristo, tutto resta nelle mani dell’uomo che
non è obbligato ad accogliere questo dono: proprio perché è un dono, deve
essere una sua libera scelta se accoglierlo o meno.
C’è da chiedersi che cosa accade se noi accogliamo o
respingiamo questo dono?
Se
noi l’accogliamo, accade una cosa meravigliosa: accogliere la Salvezza
significa accogliere quello Spirito che Lui ci ha mandato dopo la Sua
Ascensione al cielo, quel Paraclito che ci aveva promesso: io salgo al cielo, ma vi manderò il Consolatore.
Ecco,
il Consolatore promesso porterà a compimento l’opera sua: la salvezza
realizzata con la sua morte e resurrezione entra nella vita di ogni uomo che
accoglie il suo Spirito.
Apparentemente
tutto questo accade in maniera misteriosa, in realtà è tutto ben visibile e
concreto se riusciamo a leggere la vita con gli occhi di Dio.
Il Consolatore agisce concretamente nella
nostra vita perché è Persona viva.
Agisce
in chi lo lascia agire dentro di sé, in chi non gli impedisce di ‘’muoversi’’
in lui, in chi permette a quel Fuoco Vivo di alimentare la fiamma accesa con il
Battesimo; lo Spirito è come un Vento che soffia su quella fiamma e ne alimenta
la vita.
Quando
in un bosco c’è un principio di incendio, se l’aria è calma e l’intervento
tempestivo, il focolaio è facilmente circoscrivibile e lo si spegne in breve
tempo; se invece soffia il vento, le fiamme s’innalzano e l’incendio diventa
indomabile.
Gli
interventi diventano quasi inefficaci con i normali mezzi quotidiani,
l’incendio si fa ingestibile e avvolge ogni cosa.
Ritornando
al nostro discorso: lo Spirito, accolto dall’anima desiderosa della salvezza, alimenta
la fiamma messa nel cuore con il
Battesimo ed innesca un incendio d’amore che ben presto diventa indomabile, in
quanto il desiderio della salvezza cresce alimentato dal Vento dello Spirito.
Il
soffio dello Spirito alimenta quell’incendio
che brucia (le stoppie del Male) e rinnova allo stesso tempo (seminando
germogli di Bene).
Il
Vento non è qualcosa di statico, ma per sua natura è dinamismo, il vento non
concepisce l’immobilità, cammina e soffia dove vuole, spinge lontano, soffia
sul fuoco e sospinge lungo il cammino.
In
questo modo, chi porta in sé il Vento dello Spirito, non può non mettersi in
cammino, non può non sentire l’incendio che infiamma il suo cuore, un incendio
ormai dilagante, non più gestibile dalla Ragione, perché obbedisce alla Legge del
Cuore, di conseguenza non può non agire: camminare, compiere azioni, amare,
soccorrere, porgere aiuto… l’indifferenza
non gli appartiene più.
Non
può restare indifferente. Mai. Di fronte a nessuno.
Sarebbe
come agire contro la propria natura.
Non
può chiudere gli occhi di fronte alla necessità di un fratello, fosse anche il
suo peggior nemico.
Non
può.
Non
riuscirebbe a farlo.
Non
può contenere quel bisogno di agire, di
afferrare quella mano che chiede aiuto, non può sottrarsi a quella spinta
interiore che lo porta inevitabilmente verso l’altro.
Non
è semplicemente un fatto di solidarietà, di empatia, di filantropismo, ma
qualcosa di molto di più: è quel senso di fratellanza che senti forte e
naturale, che ti porta a vedere nell’altro il Cristo sofferente.
È
la forza della Fede, che si incarna in opere d’Amore.
Credo
che sia capitato a tutti sentir dire: mi
sono trovata in quella situazione e non ho potuto fare a meno di…, mi
dispiaceva di… , non ce l’ho fatta ad andarmene, a non intervenire… è stata una
cosa più forte di me… non sono riuscita a trattenermi… ho fatto quel che ho
potuto…
Ecco,
gli effetti di quella spinta interiore non possono che dar vita a questa
prossimità nei confronti del fratello bisognoso, conosciuto o meno che sia; è
una spinta misteriosa che ci porta ad
agire, a volte anche ad osare cose che mai avremmo osato, una spinta forte,
come un Vento che alimenta una fiamma fino a trasformarla in un incendio
indomabile; apparentemente la spinta è verso l’altro, in senso orizzontale, in
realtà la spinta è verso l’alto, in senso verticale… più vai verso tuo fratello
più vai verso il compimento della salvezza, verso il Regno dei Cieli.
Sembra
un gioco di parole, sembra un gioco di incroci e vicende apparentemente slegate
e occasionali, in realtà è la nostra Realtà!
Quando
la realtà spirituale s’incarna nella nostra realtà terrena, esse si alimentano
a vicenda, prendono vita l’una dall’altra.
Lo
Spirito:
ü è
Vita ed alimenta la vita, interviene concretamente nella vita;
ü lo
Spirito è Fuoco ed infiamma la vita, brucia le stoppie del peccato e rinnova il
terreno inselvatichito;
ü lo
Spirito è Vento e spinge lontano, sospinge piano ma con forza, mette in
cammino, porta con sé semi e spore e le dissemina anche su terreni deserti e
aridi;
ü lo
Spirito è Acqua che dà vita, che permette la vita, che sostiene la vita, che fa
germogliare la vita, quella vita nuova
già rivestita di salvezza.
Ricapitolando
dunque: la Salvezza è un dono; il dono lo si può accogliere o rifiutare.
Chi
lo accoglie, accoglie lo Spirito promesso da Cristo.
Lo
Spirito guida alla Salvezza e la porta a compimento attraverso la risposta
dell’uomo.
L’uomo
guidato dallo Spirito si mette in cammino, in questo cammino compie opere,
agisce, spinto da una Forza interiore che non può domare, non può contenere; le
sue opere daranno buoni frutti; il frutto per eccellenza è il compimento della
Salvezza ricevuta per dono ed accolta come desiderio dell’anima, infuocata
dallo Spirito.
Le
opere, dunque, altro non sono se non la risposta ad un’offerta.
Non
sono le opere, dunque, a salvarci, ma quelle opere non possono non esserci;
sono la diretta conseguenza, l’espressione concreta di un’accoglienza.
In
virtù di quest’accoglienza si realizza la salvezza.
E
coloro che non accoglieranno la salvezza?
La
scelta, abbiamo detto, è personale.
Non
è Cristo che esclude, Lui è morto per tutti, ma è l’uomo che, disponendo del
suo libero arbitrio, sceglie di non accogliere il dono della Salvezza e di
mettersi fuori dall’Amore misericordioso di Dio.
Cristo
ci ha salvati una volta per tutte, l’opera della Redenzione è compiuta per
tutti e per tutti i tempi, presente, passato e futuro.
A
noi è data la libertà di scegliere: possiamo lasciarci trasfigurare dal Sangue
dell’Agnello, rivestirci di un abito nuovo, lasciar morire l’uomo vecchio,
lasciarci rinnovare dallo Spirito, lasciare che lo Spirito alimenti la fiamma
posta con il Battesimo, lasciarci guidare dallo Spirito, abbandonarci al Suo
Abbraccio, lasciar ardere dentro il Fuoco purificatore e rinnovatore, che
brucia, arde e distrugge i rovi, le spine e ogni radice del male e lasciar poi
germogliare il seme dell’Amore fraterno alimentata dall’Acqua dello Spirito… e
possiamo anche non volere tutto questo, non permettere allo Spirito di entrare
a far parte della nostra vita.
La
scelta è nostra!
Salvezza
ed opere, dunque, non solo non sono in contrasto fra di loro, ma sono
inevitabilmente in stretta ed indissolubile relazione, quella cooperazione di
cui parlava S. Giacomo.
La
domanda posta all’inizio: ci si salva per
fede e per le opere?, non merita risposta, perché è una domanda posta male;
la domanda giusta si gioca sul tipo di relazione e non sulla contrapposizione: in
che relazione stanno il dono della Salvezza e le opere dell’uomo?
Molte
volte le diatribe, le discussioni teologiche, pneumatologiche o escatologiche
attraversano i secoli, creano dissapori, scismi, settarismi … senza mai
giungere a conclusioni condivise semplicemente perché si parte da domande poste
male, nate da una logica che non è propria del Cristianesimo; quando la logica
del mondo s’inserisce nella logica divina è normale l’inconciliabilità della
soluzione, si parte da motivazioni diverse, da logiche opposte, come si potrà
mai giungere a soluzioni univoche?
Trattando
delle cose di Dio occorre seguire la logica di Dio, per giungere alla
conclusione di Dio; ma se trattiamo delle cose di Dio seguendo la logica del
mondo, non si riuscirà mai a giungere né alla conclusione di Dio né a quella
del mondo: lo Spirito ha desideri
contrari alla carne e la carne ha desideri contrari allo Spirito.
Se
dunque si parte da due logiche diverse e contrarie: come si potrà mai giungere
a soluzioni accettate da Dio e dagli uomini?
La
salvezza è un dono che ci viene dall’alto ed è per l’uomo, per tutti gli
uomini, e questo non cambierà mai, resta Verità Eterna, ma noi andiamo invece
facilmente fuori strada, pensiamo di poterla gestire a modo nostro, e sbagliamo.
Nel
trattare le cose di Dio, c’è uno stile ben preciso che il cristiano deve
adottare: lo stile di Dio.
Lo
stile di Dio ce lo indica chiaramente Paolo: “Poiché in Cristo Gesù ciò che conta... è la fede che opera per mezzo
della carità. (S. Paolo, Gal 5,6).
La legge che Cristo ci
ha portato è la legge dell’amore (Rm 13,8) e l’amore si mostra attraverso le
opere (Rm 2,6).’’
Ecco
che Paolo rimette le cose a posto ed arriva alla stessa conclusione di Giacomo:
le opere sono ciò che rendono visibile
la fede, quindi semplici strumenti attraverso cui opera la fede.
Tale
cooperazione è sigillata dalla presenza dello Spirito, che si riceve per fede e
ci sottrae alla Legge: Ma se vi lasciate guidare
dallo Spirito, non siete più sotto la legge. (Gal 5,18) .
Le
opere, dunque, non hanno il compito di salvare, ma quello di rendere visibile la fede.
Se
le cose di Dio vengono lette secondo lo stile di Dio, ogni cosa viene rimessa
nella giusta dimensione.
E
lo stile di Dio ha una sola caratteristica: l’Amore gratuito, offerto ed accolto in piena Libertà!
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