DAR DA MANGIARE AGLI AFFAMATI.
Ma vediamo cosa va intesa per ‘’fame’’.
Esiste la ‘’fame fisica’’, quella prettamente corporale ed esistono poi
una serie di altre tipologie di ‘’fame’’ che non hanno direttamente a che fare
con la sazietà del corpo, ma con la sazietà di altre zone d’ombra, zone di
‘’digiuno’’ che fanno comunque parte della sfera vitale di ogni singola
persona.
Parlo di ‘’fame di Dio, fame di giustizia, fame di onestà, fame di
sincerità, fame di fratellanza, fame di solidarietà, fame di rispetto, fame di
pace, fame di comprensione, fame di famiglia, fame di vita vera!’’ ; tanti tipi di fame che
non sono certo né inferiori né secondarie alla fame che si percepisce quando lo
stomaco è vuoto.
Ma andiamo con ordine, parliamo della fame del corpo, che sembra quella
più evidente e urgente.
Dobbiamo, anzitutto, dividere il mondo in fasce o, se vogliamo, a macchie di leopardo, per meglio individuare le sacche di povertà assoluta, dove si muore letteralmente di fame, e le sacche di spreco alimentare dove si muore letteralmente di obesità.
Queste due realtà non sono più confinabili nel Nord o nel Sud del mondo,
come un tempo, ma convivono in contemporanea fianco a fianco, è solo un angolo
di strada ciò che le separa, non un confine geografico.
Basta girare l’angolo o anche solo aprire una porta!
Fame e abuso di cibo hanno una convivenza molto stretta ed anche una
stretta interdipendenza.
Eccessivo spreco da una parte, eccessiva mancanza dall’altra.
Parliamo di situazioni concrete, reali, statisticamente confermate.
Quanto allo spreco alimentare nel
mondo si legge che:
‘’Dal 1974 a oggi lo spreco
alimentare nel mondo è aumentato del 50% ma solo di recente, complice la crisi
economica globale, la questione è trattata come un vero problema.
II 40% del cibo prodotto negli
Stati Uniti finisce in discarica. In Gran Bretagna si buttano tra i rifiuti 6,7
milioni di tonnellate di cibo ancora perfettamente consumabile, per un costo
annuale di 10 miliardi di sterline. In Svezia, mediamente ogni famiglia getta
via il 25% del cibo acquistato. La situazione non è molto diversa in Italia.
Lo spreco alimentare nel mondo è
una realtà drammatica che vede finire nella pattumiera miliardi di tonnellate
di cibo. Attenzione! Miliardi e non milioni! Stando all’analisi realizzata
dalla FAO, gli sprechi alimentari nel mondo ammontano a più di 1,3 miliardi di
tonnellate all’anno, pari a circa un terzo della produzione totale. Insomma, su
3,9 miliardi di tonnellate di alimenti prodotti, 1,3 finiscono nella
spazzatura. La FAO non è l’unica ad aver indagato su quello che è lo spreco
alimentare nel mondo; stando a un’altra ricerca (Smil, 2010), solo il 43%
dell’equivalente calorico dei prodotti coltivati a scopo alimentare a livello
globale viene consumato dall’uomo.
Lo spreco alimentare non è solo una questione di cibo. Per arrivare sulle
nostre tavole, gli alimenti di cui ogni giorno ci nutriamo, hanno visto
l’investimento di numerose risorse naturali con un altrettanto importante
impatto ambientale

Lo spreco alimentare nel mondo vede tre punti critici:
- Food losses
Si
riferisce alle perdite che si determinano a monte della filiera agroalimentare,
durante la coltivazione o l’allevamento, la raccolta e il trattamento della
materia prima.
- Food waste
Vale a dire
gli sprechi che avvengono durante la trasformazione industriale, distribuzione
e le produzioni in eccedenza (prodotto invenduto).
- Sprechi domestici
Ossia gli
alimenti acquistati ma che non finiscono sulla tavola dei consumatori perché
lasciati scadere nel frigo o nella dispensa.
Lo spreco alimentare in Italia è altrettanto preoccupante. Nel nostro
paese, nel giro di un anno, si spreca tanto cibo quanto potrebbe soddisfare il
fabbisogno alimentare di tre quarti della popolazione italiana. Un anno di
spreco alimentare in Italia sfamerebbe ben 44.472.924 abitanti, avete capito
bene, quasi 44 milioni e mezzo di persone. Non c’è da meravigliarsi, allora,
nell’apprendere che gli sprechi alimentari nel mondo potrebbero arrivare a
sfamare l’intera Africa!
Spreco alimentare è sinonimo di spreco di risorse, in primis quella
idrica; altro punto critico dato che è ormai risaputo, le risorse idriche del pianeta
sono destinate a finire.
Stando a una ricerca scientifica dell’Università di Napoli, nel 2012, lo
spreco alimentare in Italia ha toccato i 1.226 milioni di metri cubi d’acqua
impiegata per la produzione del cibo che è poi stato gettato via senza essere
consumato. Uno spreco idrico incredibile se si pensa che la stessa quantità di
acqua avrebbe potuto soddisfare il fabbisogno idrico annuo di 19 milioni di
italiani. Dei 1.226 milioni di metri cubi d’acqua sprecati, 706 milioni di
metri cubi sono stati sprecati dai consumatori (in modo indiretto, sempre
mediante gli sprechi alimentari), mentre i restanti 520 milioni di metri cubi
sono stati sprecati durante la filiera produttiva, ancora prima di arrivare
nelle case dei consumatori.
Lo spreco alimentare inquina anche in Italia. Sul fronte delle emissioni,
sono 24,5 i milioni di tonnellate di biossido di carbonio sprigionati
inutilmente in atmosfera per produrre beni alimentari destinati alla
pattumiera. Il 20% di questi gas serra è legato al settore trasporti, di
queste, 14,3 milioni di tonnellate di CO2 sono associate al cibo sprecato dai
consumatori e 10,2 milioni di tonnellate sono legate alle perdite lungo la
filiera alimentare.
(Da www.ideegreen.it, pubblicato da
Anna De Simone)
Credo che sia molto chiaro il quadro della situazione.
Fame e spreco sono la stessa faccia di una società che ha perso la misura
del limite, che ha perso il controllo dei propri bisogni, che ha investito
esclusivamente sul profitto economico dimenticando che l’economia è per l’uomo
e non l’uomo per l’economia.
Quando l’unica regola è quella
del Mercato e l’unico equilibrio da mantenere è quello economico di una parte
del Pianeta, allora c’è poco da meravigliarsi se tutto il resto crolla come un
castello di sabbia sotto il sole d’agosto.
Se l’attenzione non è rivolta all’uomo, a tutti gli uomini, e ai suoi reali bisogni, ma soltanto ai flussi
di spesa, è inevitabile la catastrofe umanitaria, ma nondimeno quella economica
stessa, che implode su se stessa, non avendo al suo interno un ‘’sostegno’’
valido e solido che possa mantenerla in piedi: se crolla l’uomo, crolla l’economia,
perchè non ha vita in sé, ma è (o almeno dovrebbe essere) al servizio dell’uomo.
La finanza non si regge su se stessa né per se stessa, ha necessariamente
bisogno di un riferimento solido concreto che è l’uomo; escludendolo e precludendogli
la presenza all’interno del suo mondo monetario ed economico, inevitabilmente
crolla su stessa, perché non può vivere in funzione di se stessa, ma in
funzione di un’ umanità intera e dei suoi bisogni concreti e reali.
In quest’ottica di estrema globalizzazione economica riguardanti grandi
multinazionali e grandi profitti monetari… l’uomo fa la fame!
Fa la fame corporale: si muore,
a milioni, di fame, bambini soprattutto, bambini in tante parti del mondo!
Fa la fame di giustizia: chi
spreca e chi ha bisogno del necessario, l’essenziale minimo per la
sopravvivenza.
Fame di economia anche: lo
spreco pesa sulla bilancia economica di tanti Stati oltre che sul bilancio
economico familiare.
Fame di rispetto: rispetto
ambientale, rispetto umano, rispetto dei principi politici ormai totalmente asserviti
alle regole finanziarie ed economiche di tutti i Continenti.
Fame di valori: per la
strumentalizzazione dell’uomo a fini economici.
Fame di verità: le
statistiche rivelano una parte del problema, solo alcune delle cifre utili a
capire la realtà nella sua ampiezza; a voler essere chiari e veri, occorrerebbe
rendere pubbliche anche le cifre degli incassi delle singole parti in causa e
le cifre, mai adeguatamente quantificate, di coloro che ‘’fanno la fame’’ sotto
lo sguardo indifferente del mondo intero, pagando, ignari, le conseguenze di
una filiera consolidata di investimenti e incassi, di equilibri squilibrati, di
logiche di morte piuttosto che di attenzione alla vita.
A voler parlare di questo non basterebbe l’intero spazio Internet per
portare alla luce le situazioni sommerse di indigenza umana che fanno a pugni
contro le situazioni di obesità economica concentrate nelle mani di pochi
‘’burattinai’’ che muovono le fila della Storia mondiale.
Ma voltiamo pagina, perché c’è di peggio…
In un altro articolo, sempre sul sito di www.ideegreen.it,
pubblicato da Michele Ciceri, si legge che
‘’Ogni famiglia getta nella
spazzatura ogni settimana 639 grammi di cibo, per un controvalore di 6,5 euro
settimanali e un complessivo di 8,1 miliardi di euro annui.’’
Sembrano cifre da capogiro, eppure subito dopo, continuando a leggere lo
stesso articolo se viene a scoprire che gli Italiani sono particolarmente
attenti allo spreco alimentare…
‘’A rivelarci che non sprecare
sembra il nuovo comandamento degli italiani è il Rapporto 2014 sullo spreco
domestico di Waste Watcher – Knowledge for Expo, l’Osservatorio di Expo 2015 su
alimentazione, agricoltura, ambiente e sostenibilità.
I risultati dell’indagine rivelano
un’Italia inaspettatamente attenta allo spreco, in particolare lo spreco di
cibo. A considerarsi attenti da questo punto di vista sono 63 cittadini su 100;
più dei 48 su 100 che considerano importanti i prodotti locali e il 47% che ha
a cuore soprattutto il rispetto per l’Ambiente.
La sicurezza è una priorità per il
42% degli italiani, l’equità per il 39% e la tolleranza per il 12% soltanto.
Siamo un Paese di intolleranti? No, più probabilmente è che la gran parte dei
cittadini quando si guarda attorno non constata un deficit di tolleranza,
mentre vede cose gravi sul fronte dello spreco domestico.’’.
Ecco l’altra faccia della fame: l’egoismo, l’egocentrismo, l’intolleranza
tollerata.
I nostri occhi si sono impigriti, stentano a vedere, a leggere correttamente
la realtà, vedono e non vedono, percepiscono alcuni riflessi, ma non riescono a
vedere più la realtà nella sua
interezza, nella sua verità.
Siamo così presi dai nostri interessi che non ci interessa nient’altro,
nessun altro.
Il nostro sguardo sul mondo amplifica, ingigantisce alcuni settori e ne
oscura altri.
Li eclissa totalmente. Rendendoli invisibili pur essendo reali.
Ecco che passiamo sopra, ignoriamo, non diamo nessun peso ai problemi di
tolleranza/intolleranza che ci circondano e ci interpellano personalmente e ci
concentriamo ancora una volta soltanto su aspetti economici , che siano di
ordine familiare o socio-politici.
C’è fame di ‘’realtà’’, non siamo più obiettivi, non siamo più in grado
di leggere la realtà che ci circonda nella sua verità.
Andiamo dove i Media, ormai padroni assoluti del nostro pensiero critico,
ci portano; puntano i loro obbiettivi su questo o su quell’argomento ed ecco
che tutti noi guardiamo solo in quella direzione e vediamo solo quello che l’obbiettivo
ci porta a vedere, oscurando tutto il contesto, negando tutto il resto.
L’obbiettivo di una telecamera, per sua natura, racchiude una piccola
parte di realtà, non ha uno sguardo ampio, ma relativo all’interesse del
momento e dell’operatore che inquadra questa o quella situazione.
Ecco, noi andiamo dietro a quell’obbiettivo, credendo che la realtà sia tutta racchiusa in
quei pochi cm di spazio filtrato da una lente e dall’interesse di chi guarda
per noi la realtà in cui siamo immersi.
Non riusciamo a vedere al di là di quell’obbiettivo, al di là del nostro
naso.
E questa è anche un’altra delle conseguenze del nostro impigrirci,
conseguenza a sua volta, della nostra obesità, che appesantisce e rende
difficile ogni movimento, tanto quello del corpo quanto quello dello spirito.
Stiamo comodi, abbiamo tutto, abbiamo il di più… tutto il resto non ci
tocca, non tocca a noi risolvere i problemi del mondo, neanche occuparci di
quelli contro i quali sbattiamo il naso ogni giorno; non ci interessa nessun
altro che non sia il nostro personale portafoglio!
Ma anche laddove la responsabilità, svegliata dalla coscienza, dovesse
venire a interpellarci, ecco che l’ostacolo, il freno è già presente, è già
pronto per impedirci quell’apertura che a volte si profila nelle nostre menti;
la cosa peggiore è che quel freno viene proprio ad opera di coloro che
dovrebbero avere a cuore il Bene Comune, la Res Pubblica che non è fatta solo
di economia e di decreti legislativi per la tutela degli interessi privati di
un pugno di senatori dissennati; il Bene Comune include tutti, ricchi e poveri,
uomini pubblici e uomini invisibili.
Invece…
Invece… tra il dire e il fare… c’è sempre la burocrazia, la politica e gli interessi economici che offendono la
giustizia, pubblica e privata , a favore di una cecità spirituale che rivela
una fame di umanità, di buon senso… semplicemente di buon senso o anche, se
vogliamo, di semplice e normale senso pratico che qualcuno a volte mostra che
ancora esiste nelle qualità tipicamente umane.
Buon senso e senso pratico sbaragliati dalle ferree leggi della finanza!
Esempi concreti?
Due per tutti!
Il primo riguarda l’iniziativa privata di un panetterie dell’Umbria,
portata all’attenzione del pubblico con
un servizio mandato in onda nel programma di ‘’Vita in diretta’’ di qualche
giorno fa.
Un giovane panettiere aveva deciso di mettere sulla sporgenza di un
muretto a fianco dell’ingresso del suo forno, una piccola cesta contenente non
più di una ventina circa di panini, rimasti invenduti al termine della
giornata, a favore dei passanti bisognosi, che siano immigrati o compaesani in
difficoltà economica.
Semplice pane avanzato.
Un piccolo e semplice gesto di generosità che poteva fare la differenza
per tante persone o anche famiglie.
Per farla breve, quel giovane panettiere è stato multato per aver abusato
di suolo pubblico (lo spazio su cui poggiava la cesta di 50 cm circa) e gli è
stato vietato di continuare a farlo in ottemperanza alle leggi comunali in
materia di vendita e commercio.
Ora… offrire del pane avanzato, tra l’altro, per evitare che finisca
nella pattumiera, può essere mai in contrasto con le leggi comunali o di
mercato?
La lotta allo spreco non può forse passare anche attraverso microscopiche
iniziative private, una goccia nell’Oceano della fame, ma che senza quella
goccia anche l’Oceano è più povero?
Mi chiedo: possiamo accontentarci delle statistiche e poi impedire di
fatto ogni possibile soluzione?
Si tratta di vero e immotivato impedimento da parte di Enti governativi
che dovrebbero tutelare il benessere dei loro cittadini, di tutti i loro
cittadini, e questo è ancora peggio della mancanza assoluta di leggi a favore
della solidarietà e dell’aiuto fraterno.
Il secondo esempio ci viene dal rapporto, sempre disciplinato da leggi
governative, fra aziende pubbliche e organismi di solidarietà.
Parlando con una persona responsabile della Caritas in una parrocchia periferica di Roma, mi diceva
che i ristoranti, i forni o tutte quelle aziende di tipo alimentare alle quali
avanza cibo quotidiano possono offrire liberamente solo una limitata quantità
di prodotti alimentari avanzati, oltre quel limite stabilito tutto ciò che
ancora resta deve essere buttato, incenerito o comunque distrutto in qualche
modo. Non si può, per nessun motivo, superare le quantità stabilite, nemmeno se
la richiesta fosse superiore a quanto offerto.
La Caritas parrocchiale in questione si occupa della sopravvivenza
quotidiana di circa 150 famiglie di immigrati oltre di una sacca di povertà
piuttosto ampia formata dalle famiglie stesse della parrocchia.
Finiscono al macero quintali di prodotti alimentari in buono stato che,
per leggi dello Stato, non possono essere offerte in beneficenza a famiglie
bisognose, neanche a quelle stesse famiglie di cui lo Stato dovrebbe farsi
carico in prima persona.
Situazione paradossale… o direi…
peggio… inaccettabile!
Eppure è così, il rapporto tra il pubblico e il privato, lo Statale e il
non-profit, le leggi dell’economia e quelle della solidarietà… pare sia un
controsenso unico, un’opposizione e non una condivisione.
Assurdo!
Assurdo e inaccettabile!
Come se nel concetto di ‘’Bene Comune’’ non fosse contemplato il dovere
di ‘’dar da mangiare agli affamati’’., neanche laddove quel ‘’dar da mangiare’’
è un avanzo, un di più che non toglie niente a nessuno, ma dà una speranza di
vita a tanti.
Saziare la fame è un bisogno primario.
Il diritto al cibo non è un lusso o una libera e occasionale concessione:
è un dovere degli Enti locali provvedere, in misura adeguata, con mezzi
pubblici o anche privati, al sostentamento essenziale per la sopravvivenza di
tutti i suoi cittadini.
Ma anche questo diritto/dovere è vincolato dalle leggi del mercato.
Dalle spietate leggi del Mercato finanziario, leggi ferree e
invalicabili, pur di fronte ad un bisogno concreto, reale e urgente!
Questa è una realtà che riguarda tutti gli organismi umanitari, da quelli
su scala mondiale a quelli locali nati dall’iniziativa del singolo privato che
ancora riesce a leggere oltre la miseria di una politica non pro-humanitate, ma
pro-economy!
Un ultimo esempio, una sofferenza che mi porto nel cuore da circa un
anno, una ferita che non riesce a riemarginarsi… dovrei dimenticare… ma non è
possibile!
Non voglio!
Qualche mese fa, trovandomi a Roma in quei giorni, in seguito ad un improvviso malore, chiamata
l’autoambulanza, fui trasportata in un ospedale della capitale.
Quando entri in un’autoambulanza non sai mai dove vai a finire, non sei
tu che decidi dove andare ‘’a morire’’ ( perché di morire si tratta, non è
detto che si arrivi vivi in ospedale dopo un viaggio in autoambulanza per le
strade bucate di Roma!) ma dipende dai posti liberi nei pronto soccorsi e
questo è un grosso punto interrogativo, perché andare in un pronto soccorso di
Roma significa ‘’scendere all’inferno’’.
L’autoambulanza si è fermata in un Campus Universitario, tra i più
rinomati d’Europa.
Dopo circa un’ora di strada su una barella sgangherata (dove morirebbe
anche chi gode di ottima salute) e sobbalzi continui che rendevano più acuto il
dolore, giunta finalmente al pronto
soccorso sono stata scaricata su un’altra barella e messa in uno dei pochi angoli ancora vuoti
del corridoio.
Codice giallo.
Dopo mezz’ora di dolori atroci, finalmente qualcuno mi ha rivolto lo
sguardo e sono stata portata in un altro angolo del corridoio, ancora in attesa
di attenzione da parte di qualche dottore o personale medico-ospedaliero
addetto.
Passa ancora del tempo, qualcuno arriva, cerca velocemente e
distrattamente di capire di cosa si tratta… poi, dopo una TAC vengo depositata in un altro corridoio… ci
resterò per tre giorni!
Su una barella. Senza comodino. Senza sedia. Senz’acqua. Tra gli spifferi
e le correnti d’aria che rendevano ancora più invivibile quell’affollato
corridoio dove i rumori, il via vai di gente di ogni genere e la confusione era
ininterrotta. A ciclo continuo.
Tutti vanno di fretta.
I malati sono tanti. Il personale scarseggia.
Fa freddo, entra vento da tutte le parti. Stai male.
C’è nervosismo nel personale.
Sono tutti stanchi.
Stressati.
Al limite delle forze.
Capisco.
Guardo e capisco.
Mi guardo intorno.
Su tutti i lati del corridoio c’è gente su una durissima barella… in fin
di vita; su una barella che ti penetra fin nelle ossa… consuma i tuoi ultimi
istanti di vita e le poche forze rimaste.
Vorresti alzarti, perlomeno girarti un po’… senti il dolore farsi
insopportabile… ma non puoi alzarti, nemmeno
muoverti, le flebo ti bloccano.
Chiedi di poter bere almeno una goccia d’acqua. Nessuno ti ascolta. Ti
passano a fianco. Indifferenti.
Non sentono la tua richiesta. Parlano fra di loro. Nessuno ascolta.
Resti lì, trapassata dalla sete, dall’immobilismo obbligato, dall’indifferenza
del personale.
Pensi e piangi.
Di fronte a me una ragazza che ha tentato il suicidio, aspetta una
lavanda gastrica. Rischia la vita.
Il padre è disperato, cerca aiuto. Tutti hanno da fare.
A fianco a lei una donna con una gamba spezzata, aspetta l’intervento da
settimane, sta male, sta lì da una settimana circa perché non c’è posto nel reparto:
occorre essere raccomandati per averne uno.
Forse – mi
confida – è riuscita a trovare qualcuno
che possa parlare a suo favore.
Spera.
Altre tre signore anziane dall’altra parte, tutte lì da giorni, stanno
male, tutte in attesa di un intervento ancora tutto da ‘’decidere e in data da
stabilire’’; hanno bisogno di bere, ma non c’è nessuno che si ferma a dare loro
un po’ d’acqua.
La loro sete amplifica la mia.
È pomeriggio.
Nell’altro corridoio… c’è un bambino, un migrante che è venuto in Italia
per poter stare finalmente con la mamma, già in Italia da qualche anno; è
caduto e si è fatto male.
Non si sa cosa ancora quanto sia grave. È lì dal mattino, ma nessuno
ancora si è fermato presso la sua
barella; la mamma parla un poco l’Italiano, ma non osa chiedere.
Ha pazienza – dice – qualcuno, prima o poi, verrà anche da loro!
Spera e accarezza il suo bambino, mentre aspetta che qualcuno si ricordi
di loro.
I corridoi portano al reparto che si apre al di là del muro presso il
quale sono stata ‘’depositata’’. Sento lamenti, respiri lenti e respiri affannosi,
sento gente che piange, che chiede aiuto, sento risposte che non mi danno
sollievo né consolazione… siete tanti e noi siamo in pochi, dovete aspettare, non è colpa nostra, non sappiamo come
fare… basta… finitela… non abbiamo tempo… e così per l’intera giornata… per
l’intera nottata e per i giorni a venire!
Sto male e non solo perché sto ancora male e non so ancora il perchè… sto
male perché sta male tanta gente intorno a me, il loro dolore mi penetra più
del mio,per quanto insopportabile sia.
I macchinari che entrano in loro con ogni genere di tubi e tubicini sono
le uniche cose che si prendono cura della loro sopravvivenza… qualcuno non ce
la fa… lo portano dietro una tenda, chiamano i familiari… dopo un po’ una
barella ricoperta da un telo bianco attraversa il corridoio e scompare dietro
una porta subito chiusa. Dopo qualche
minuto riportano indietro la barella, viene rapidamente spruzzata con un
‘’disinfettante’’ , poi vengono a prendermi e mi ridepositano sopra, perché la
mia serve per qualcun altro.
È un incontro di vita e di morte.
La vita che va.
La vita che soffre.
La vita che spera.
Sto male… mi sembra l’inferno… il mondo è lontano.
Mi sovvengono i lazzaretti di manzoniana memoria. Ma almeno lì non si
moriva così.
Forse lì, chissà, non si moriva affamati!
Oggi, sì proprio oggi, a Roma, si muore di fame… nel migliore ospedale
europeo!
Sono rimasta digiuna per due giorni, in attesa che qualcuno capisse la
causa del mio malore.
Al terzo giorno sono stata portata in una specie di sgabuzzino,
attrezzato come stanza per gli ammalati: finalmente avevo una specie di materasso, non
più alto di qualche cm, ma a me è sembrato ‘’un letto regale’’ .
Pensavo a tutti quelli che stavano immobili su sedie a rotelle da giorni,
con tubi che entravano dappertutto: dal naso, dalla bocca, dalla pancia, dalle
braccia….
Immobili e soli… a lottare per la sopravvivenza e contro la speranza che si
affievoliva sempre più, gestiti come ‘‘pupazzi’’ dagli infermieri di turno: girati,
rigirati, spogliati, rivestiti… pochi attimi e subito un altro… non hanno
tempo, non hanno pazienza, non hanno attenzioni.
È un compito da fare. Sono tanti i malati, loro sono pochi, devono fare
l’essenziale e farlo in fretta.
Il loro dolore mi penetra più del mio.
A fianco a me c’è un altro letto: una signora sulla quarantina, ammalata
di SLA, è caduta e si è rotta una scapola; è stata nel corridoio anche lei per
giorni, su una dolorosissima barella, immobile, da sola; il suo medico curante
le aveva sempre detto che per lei il movimento è essenziale, se si ferma,
nonostante la sofferenza che le provoca il movimento, per lei è finita, accelera il processo di immobilizzazione.
Questo i medici lo sanno bene, come pure l’ortopedico che l’ha visitata
distrattamente la prima mattina che è arrivata. Sono passati giorni, non è più
scesa da quella barella. Sa che ogni attimo che passa così è tempo prezioso per
la sua autonomia già abbastanza compromessa.
Sa che in quello stato rischia la paralisi completa. Lo sanno anche i
dottori.
Ma nessuno sembra preoccuparsene.
Era già al quarto giorno, il dolore le si era fatto insopportabile… eppure
il sorriso non le si era mai spento. Aspettava con fiducia le figlie e il
marito… ma non veniva mai nessuno.
A mezzogiorno hanno portato il pranzo in ciotole di plastica: brodo e
patate lesse.
Anche se ancora in via sperimentale, potevo finalmente alzarmi e provare
a mangiare qualcosa.
Ho preso un cucchiaio di brodo. È finito lì il mio primo pranzo dopo tre
giorni di digiuno.
Quello non era un pranzo.
I cani non l’avrebbero mangiato.
Neanche se fossero stati digiuni da settimane.
Era acqua cotta. Acqua per lavare i piatti.
Disgustosa. Immangiabile. Qualcosa di indefinibile.
Eppure non mangiavo da giorni. Eppure non sono un tipo schizzinoso.
Eppure ho mangiato anche in altri ospedali. Eppure avrei voluto mangiare.
Eppure sapevo di non essere al ristorante… non mi aspettavo pietanze
saporite… ma nemmeno cibo immangiabile neanche per i maiali!
Quella cosa che chiamavano ‘’pranzo’’ non era buono neanche per gli
animali affamati!
Lascio tutto sul tavolino. Mi giro per vedere se la mia compagna di
stanza avesse mangiato.
Vedo il vassoio intatto sul suo comodino. Le chiedo perché non avesse
mangiato.
‘’Non riesco - mi
risponde - con la mano sinistra non
riesco a mangiare. Speravo che venisse mia figlia per aiutarmi, invece è già
tardi, non credo che verrà più’’.
‘’ Se vuoi, ti aiuto io’’.
Mi avvicino per sistemarle il tovagliolo.
Al braccio destro ha la flebo da
giorni, al sinistro una fasciatura che le avvolge tutta la spalla.
Le avvicino un cucchiaio di brodo.
Lo sorseggia e mi fa cenno con il capo di non volerne più.
‘’Non ne vuoi più? - le chiedo
– Lo so che non è buono, ma sei digiuna
da giorni, lo sai che rischi molto se non mangi? ‘’.
‘’Non riesco a mangiarlo. È lo
stesso pranzo di tutti i giorni. Sembra che sia stato preparato una settimana
fa.’’
‘’Sì, lo so, neanch’io sono
riuscita a mangiarlo. Vuoi almeno assaggiare le patate? Forse quelle si
riescono a mangiare o anche solo un boccone di pane!’’
‘’ Le patate le conosco già, sono
le stesse di ogni giorno. Ed anche il pane. Credo che non sia fatto di farina. Preferisco
restare digiuna, almeno evito di stare male anche di stomaco. Mi basta il
dolore che ho.’’
‘’Ma non hai fame? Sono parecchi
giorni che non mangi! Rischi di peggiorare la situazione!’’
‘’ Forse il digiuno è più
sopportabile della nausea che provoca quel cibo dopo averlo ingerito. Lo dico, perché ci ho provato. Ed io non posso
alzarmi neanche per vomitare!‘’
Non ho osato insistere.
Sapevo di cosa parlava.
Sapevo che rischiava la vita non mangiando e sapevo anche che lei amava la vita. Che desiderava vivere. Era una
persona solare. Serena. Bella dentro e fuori.
Ma non poteva mangiare ciò che era immangiabile.
Le porgo un po’ d’acqua… e il suo digiuno, stranamente, mi diventa più
insopportabile del mio.
Io forse uscirò a breve, lei chissà quando… che ne sarà di lei!?
Esco nel corridoio per lasciarla riposare, anche parlare le costa fatica.
Percorro il corridoio nel quale si aprono le stanze del reparto.
Il corridoio è strapieno di barelle e sedie a rotelle. Stanno lì da
giorni anche loro.
Molti lottano tra la vita e la morte. Vedi la morte nei loro occhi. Sono
pallidi. Alcuni respirano appena. Sono soli. Sono spaventati. Sono abbandonati.
Soffrono tanto.
Il tic continuo dei macchinari a cui sono attaccati sembra l’unica cosa
viva di quel luogo.
I letti nei reparti sono pieni. Non c’è un angolo libero.
Passo in mezzo a loro. Tra le barelle a desta e a sinistra.
Lo sguardo si ferma sulle scodelle ancora tutte piene, alcuni non hanno
neanche aperto la bustina con le posate. Non mi chiedo come mai.
So già la risposta, non ho bisogno di chiedere.
Mi fermo a parlare con qualcuno di loro.
Ci sono delle signore anziane che sembrano star un po’ meno male degli
altri: qualcuna aspetta la figlia o il figlio che le portino qualcosa da
mangiare. Una mi parla dei suoi tre figli. Li adora.
Ne è orgogliosa. Li aspetta. Il digiuno e il dolore sembra passare in
secondo piano mentre mi parla della sua famiglia. Sembra estasiata al solo
pensare a loro.
Gli affetti familiari sembrano saziare più di quel cibo lasciato tra le
corsie di un reparto di moribondi. Ma quell’affetto è solo nel loro cuore. La famiglia
è lontana. Ha i suoi impegni di lavori. I loro orari. Non possono far visita ai
loro familiari.
Tanto.. stanno in ospedale… lì c’è (o ci dovrebbe essere) chi si prende
cura di loro!
I vassoi sono tutti intatti, gli inservienti vengono a riprenderli e li
svuotano in recipienti che non riescono più a contenerne il contenuto.
Li riportano al mittente.
Nessuno ha mangiato.
Per molti quello poteva essere l’ultimo pasto della loro vita.
Per molti è stato l’ultimo pasto della loro vita.
Ritorno nella mia camera.
Sto male, anche se il dolore fisico è diminuito di molto.
Sto male e mi viene da piangere.
È vita umana quella intorno a me.
Sono esseri umani quelli che ho incontrato.
Sono persone che soffrono. Sono persone che sperano nell’aiuto e
nell’attenzione dell’altro.
Sono persone… che vorrei abbracciare, accarezzare, dar da mangiare… ma
non posso farlo.
Nessuno può avvicinarsi a loro. Nessuno può dare loro altro se non quello
stabilito dall’ospedale.
Se non quello stabilito dall’ospedale!
Ma l’ospedale non può stabilire quelle cose!
Non può dar da mangiare a dei moribondi cose simili!
È immorale!
È contro la natura stessa dell’ospedale.
L’ospedale è un luogo pro-vita, non pro-morte!
E allora come si spiega un simile trattamento?
Arriva la dottoressa per il controllo giornaliero.
Le chiedo timidamente: ‘’Dottoressa,
ma avete mai assaggiato il pranzo per gli ammalati? Come è possibile dar da
mangiare questa roba?’’.
‘’Sì, lo sappiamo. Quasi nessuno
mangia qua dentro. Ma non possiamo farci niente. L’ospedale affida il servizio
a delle cooperative che a loro volta si servono di persone che vengono ingaggiate
per tre mesi e poi si cambia. Sono persone a volte senza esperienza, anche
giovani disoccupati che non sanno niente di cucina, lavorano per qualche mese
poi vanno via. All’ospedale conviene perché così risparmia, ma sappiamo quali
siano le conseguenze. Eppure non possiamo fare niente.
È la Direzione che decide.’’
‘’E il nutrizionista? Il dietologo? Tutti gli esperti in alimentazione
che tanto vengono applauditi quando si fa pubblicità all’ospedale? Quado ci
sono i riflettori puntati sul mondo? Dove sono? Cosa ne pensano? Cosa fanno per
garantire la sopravvivenza e i diritti dei malati?’’
Sorride amaramente, non risponde. Prende la sua cartella per annotare i
risultati della sua visita e va via.
Il suo silenzio è abbastanza eloquente!
Mi chiedo in che mondo viviamo. Mi chiedo se è davvero questa la nostra
realtà.
Penso che forse l’essere lì dentro da giorni, mi abbia estraniata dalla
realtà.
Forse sto immaginando io tutto questo.
Poi mi giro e guardo la mia compagna di stanza: no, lei è reale. Il suo
dolore è reale.
La sua fame è più reale della mia.
Morire affamati su una sedia nei
migliori ospedali d’Europa!
È follia!
Impossibile anche da immaginare.
Ma era tutto vero.
Tragicamente tutto vero.
In quel luogo di cura e di attenzione alla vita, l’uomo aveva perso ogni
dignità.
Ogni significato. Umano. Morale. Etico. Sociale.
L’uomo era semplicemente frutto di un’operazione matematica.
Di una scelta di convenienza.
L’uomo era un oggetto.
Sì, in quei corridoi e in quelle stanze non c’erano uomini e donne,
esseri umani, ma oggetti da usare per
un’immagine apparente…
Sì… un’immagine apparente!
Qualcuno viene a dirmi che nel pomeriggio potrò uscire e tornare a casa.
Non riesco a gioire.
Dovrei esultare.
Non riesco.
Qualcosa mi schiaccia l’anima.
Un peso insopportabile!
Un dolore infinito mi dilaga dentro.
Guardo la mia compagna di stanza.
Immobile nel suo letto.
Quel letto potrebbe essere la sua rovina.
Ha bisogno di alzarsi.
Non può.
Leggo il suo dolore sul volto, anche se mi sorride rispondendo al mio
sguardo.
Chi l’aiuterà adesso che vado via?
Non viene nessuno della sua famiglia.
Le infermiere non hanno tempo per ascoltare i suoi bisogni.
Chi le darà da bere.
Vorrei restare lì almeno per lei.
Sarei andata via quando lei sarebbe andata via.
Ma devo sbrigarmi.
Quando mi portano la cartella clinica devo già essere pronta.
Preparo in fretta le mie cose.
Poche cose.
Il peso più grande me lo porto dentro.
Il borsone è leggero. Leggerissimo.
Ma non riesco ad andare via così.
Proprio non ci riesco.
Devo fare qualcosa.
Sì, devo fare qualcosa.
Cerco l’uscita.
Ci sarà pure una cappella da qualche parte.
In ogni ospedale ce n’è sempre una.
Ne troverò una da qualche parte.
Apro la porta da dove vedo arrivare gente che va e viene.
Apro la porta e…
Non credo ai miei occhi!
Non posso credere ai miei occhi!
Mi sembra di aver cambiato libro da leggere… da un libro di tragedie ad
uno di fiabe!
Davanti a me un corridoio immenso lastricato di marmo pregiato che si
riflette sulle pareti verniciate di un rosa candido… uno spettacolo
meraviglioso!
Incredibile!
Insospettabile!
Mi sembra di essere Cenerentola nella reggia del principe: con il mio
pigiama macchiato di medicine in un luogo lussuoso dove si potrebbe usare il
pavimento per mangiare tanto è pulito e splendente!
Percorro il corridoio e vedo da lontano l’interno delle stanze!
Mi sembra un albergo a… 10 stelle!!!
Un ordine e una pulizia fuori dal tempo!
Un lusso che non avevo mai visto prima!
Non so se piangere o…
Seguendo le indicazioni arrivo finalmente alla cappella.
Mi colpisce la sobrietà del luogo. Anche l’intimità.
Non c’è nessuno.
Mi inginocchio e racconto a Lui ciò che mi schiaccia il cuore!
Arriva il cappellano. Celebra la messa.
Devo andare.
Ma non posso.
Non posso andare via così.
È tardi. Non posso trattenermi oltre.
Esco in silenzio.
Raggiungo la mia stanza.
La dottoressa mi rimprovera.
‘‘Ma dove sei andata? Ti abbiamo
cercata dappertutto! Lo sai che devi uscire. Devi approntarti subito, perché
serve il letto libero.’’.
Raccolgo il rimprovero e riesco a dire solo:’’ Sono andata a pregare…’’.
Lei mi guarda e tace.
Sì, avevo da ringraziare per me… e avevo da affidare tutti loro alla
misericordia del Signore… loro… i dottori… prima ancora che gli ammalati…
perché non facesse mai dimenticare loro che ogni uomo, ammalato o non, ‘’è
carne di Cristo’’; che ogni ammalato è
un fratello da amare non da sfruttare e che se ‘’dar da mangiare agli affamati’’
è un dovere morale verso la Carne di Cristo… ‘’dar da mangiare agli ammalati affamati’’ è un grido di dolore lacerante
‘’ai piedi di Cristo’’ .
Il ricordo di quegli ammalati affamati ed ammassati nei corridoio del
Pronto Soccorso e buttati lì come ‘’oggetti’’ e l’immagine stridente dei
reparti che si aprivano lussuosi al di là di quella porta mi faceva più male
del dolore atroce che avevo provato quando sono giunta in ospedale.
L’immagine che si dà al mondo non sempre corrisponde all’immagine reale.
Non è così che devono andare le cose.
Si risparmia sull’essenziale e si ostenta il lusso che riempie gli occhi
e svuota le pance dei moribondi!
Una realtà inaccettabile!
Inqualificabile!
L’ospedale risparmia sulla pelle dei moribondi, per un lusso di gran
lunga al di sopra del necessario!
Ecco la vergogna della fame: fame di fama!
Ecco la vera fame: fame di giustizia!
Fame di verità!
La mia fame di quei giorni l’ho dimenticata, ma la loro no, mi è rimasta
addosso, mi è rimasta dentro, è una fame insaziabile di giustizia, di dignità,
di umanità.
Si c’è tanta fame nel mondo, fame di serietà, di onestà, di dignità, di
giustizia, di amore vero, di cose vere, di parole vere…
La loro fame proprio non riesco a
dimenticarla, non riesco a scrollarmela di dosso… non posso… forse non voglio…
voglio ricordare… per ricordarmi di tutti loro e di tutti quelli che
prenderanno il loro posto… il mio posto… voglio ricordarmi di loro… non
dimenticarmi di nessuno: dei dottori distratti, degli infermieri stressati, dei
malati affamati, dei moribondi che non
ci sono più, dei giovani infermieri che si drogavano fuori dalla porta e poi si
sdraiavano sulle barelle in attesa che fosse passato l’effetto per poi ritornare a cambiare le flebo a chi lottava tra la vita e la morte… della
sofferenza che viene amplificata dall’incuria dell’uomo, dello sguardo amaro della
dottoressa quando le ho chiesto il perché di tutto quello, dell’attimo in cui
ho salutata la mia compagna di stanza … ed ho pensato a tutti quei programmi televisivi dove si cucina in diretta
e si calcolano le calorie, la spesa, il tempo da impiegare, si guarda l’estetica
del piatto e al recupero dei prodotti biologici o locali; ed ho pensato a quante parole e a quanta
carta viene riempita nel parlare di ‘’corretta dieta’’ per ogni fascia di età; ed
ho pensato a quanta attenzione viene data alle regole per una giusta
alimentazione fin dai primi anni di vita; ed ho pensato a quanta importanza si
dà al cibo nelle nostre case, nelle nostre feste; ed ho pensato a quanto
pubblicità veniva fatta, in quei giorni, per l’Expo di Milano il cui titolo era
‘’Nutrire il Pianeta’’… come se quelle persone non fossero parte integrante ed
essenziale del Pianeta, non fossero la priorità del Pianeta!
Come se lei… immobile su un letto d’ospedale non avesse diritto al suo … adeguato
cibo quotidiano!
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