sabato 27 febbraio 2016


DAR DA BERE AGLI ASSETATI

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O Dio, tu sei il mio Dio, all'aurora ti cerco, *
di te ha sete l'anima mia,
a te anela la mia carne, *
come terra deserta, arida, senz'acqua.
(SALMO 62, 2-9)


Come terra deserta. Arida. Senz’acqua.
No, non sto parlando dell’estesissimo deserto del Sahara, né della sconosciuta Siberia né  del lontanissimo deserto del Kahalari, sto parlando di qualcosa a noi molto più vicino ed intimo, di molto più esteso anche del deserto più grande del mondo, sto parlando del DESERTO DELLA NOSTRA ANIMA.
La nostra anima ha sete.
Ha sete del Dio Vivente.
Che cosa significa questo?
Innanzitutto ci dice che la nostra sete non è solo quella fisiologica, facilmente saziabile, almeno in una parte del mondo; ma c’è un’altra sete, più profonda, più estesa, più insaziabile perché più sconosciuta, più difficile da ‘’ascoltare’’, da percepire, quindi più difficile da dissetare… più difficile perché la nostra attenzione è rivolta unicamente alle richieste del corpo, a quel corpo che chiede soddisfazione immediata, altrimenti fa sentire i suoi morsi e la sua ribellione in maniera così dolorosa, da obbligarci a dare attenzione e risposta al più presto.
Risultati immagini per dar da bere agli assetati immaginiLa sete interiore, invece, quella dell’anima è spesso sommersa, nascosta dietro strati e strati di durezza, prepotenze, egoismi, presunzioni… sotto una montagna gigantesca di peccati che la schiacciano al punto da farla estinguere, non perché sia stata soddisfatta, ma per incapacità di  riconoscerla; facciamo ‘’morire la sete’’ dentro di noi, perché siamo diventati così aridi al punto da far diventare la nostra aridità qualcosa di normale nella nostra condizione umana, ci siamo assuefatti a questa condizione al punto da dimenticare il nostro bisogno di sete interiore.
Siamo un deserto arido.
È normale che il deserto sia arido, ma non è normale che la nostra anima sia un deserto arido.
Noi siamo fatti per la fertilità, per la vita, per la riproduttività, per la nascita e la crescita, noi siamo campi fertili, distese di vegetazione e vita, noi siamo un campo di grano pronto per il raccolto, siamo abbondanza, ricchezza di raccolto, siamo fatti per il raccolto… invece… invece la nostra terra non fiorisce più, non produce più frutti, siamo terra arida, deserta, senz’acqua… e senz’acqua non c’è vita.
C’è dunque qualcosa dentro la nostra natura che non va, qualcosa che rinnega se stessa, che trasforma se stessa e ci fa essere diversi da ciò che siamo: non siamo terra deserta, ma terra fertile!
Per essere terra fertile, però, occorre irrigarsi spesso o lasciarsi irrigare da mani sapienti e generose.
Purtroppo, la secchezza della nostra ‘’terra’’ ci ha resi duri da talmente tanto tempo che abbiamo dimenticato il passaggio dolce e ristoratore dell’acqua che scorre e accarezza la terra ridandole vita e capacità di generare vita.
Siamo deserti. Siamo rimasti deserti troppo a lungo.
Siamo vastissimi deserti che si accontentano di essere tali.
Che credono di essere tali.
Che si sono rassegnati ad essere tali ed hanno dimenticato i tempi della fertilità.
Siamo deserti rassegnati.
Rassegnati ad essere deserti.
Ma se questa è la nostra scelta, questa non è la nostra vera realtà.
Andiamo contro noi stessi.
Facciamo violenza a noi stessi.
Occorrerebbe sentire quella ‘’sete’’, sentire la sua morsa, sentire i suoi crampi, lasciarsi lacerare dalla sete insaziabile, lasciarsi strappare le vesti dal bisogno di acqua, lasciarsi penetrare ancora da un raggio di luce che viene a svegliare la vita dentro di noi.
Quanta sete nel mio cuore… solo in Dio si sazierà!
È un grido lacerante… quanta sete nel mio cuore… è un grido lacerante che mi dice qual è il mio vero problema: sono assetata; e mi dice anche qual è la soluzione: ho bisogno di Dio.
Sì, quanta sete nelle profondità abissali del nostro cuore, anche le vie più sotterranee sono rimaste asciutte, neanche più una goccia; la sopravvivenza stessa è a rischio.
Una sete che si sazierà soltanto in Dio.
Una sete, però, che noi non sentiamo più… per questo  è destinata a restare SETE, un’arsura infinita e straziante il cui dolore non percepiamo più.
Risultati immagini per dar da bere agli assetati immaginiÈ la nostra condizione di uomini e donne abituati a dare risposte immediate ed abbondanti solo ai bisogni del corpo e a lasciare inascoltato il grido del nostro cuore, il suo bisogno di acqua pura.
Quel bisogno di acqua pura che altro non è se non  quell’angoscia che a volte ti prende e tu non sai darle un nome o un volto, non riesci a capirne la provenienza, la causa; è un’angoscia che ti strazia e ti sbatte come il vento fa con i panni stesi al sole o con la tenera erba appena germogliata e ti stravolge, ti annienta, ti annulla e tu non sai perché.
O meglio… non vuoi sapere il perché, non vuoi chiedertelo, dovresti fare i conti con una terribile realtà che non ti va o non hai il coraggio di affrontare: la realtà della tua vita interiore che non è quella che credi che sia, ma tutt’altra cosa da ciò che credi che sia… è deserto arido, senz’acqua, non campo rigoglioso percorso da fiumi di acqua viva.
Come siamo diversi nella nostra duplice realtà: fuori belli, sazi e vivi, dentro sporchi, assetati e morti!
Siamo come la doppia identità del dottor Jekyll e mister Hyde, sì siamo uno strano caso di terribile ambiguità, di sdoppiamento di personalità: dal dentro al fuori e dal fuori al dentro. Diversi. Persone diverse.
Eccessivamente curati fuori, sporchi e trasandati dentro; eccessivamente saziati fuori, terribilmente affamati ed assetati dentro.
No, non servono né l’ecografia né la Tac e nemmeno una risonanza magnetica per tracciare il quadro della nostra situazione interiore, non riuscirebbero ad oltrepassare l’invisibile, a cogliere l’Assoluto di cui siamo immagine.
La nostra interiorità ha una sua personalità, un suo bisogno di mangiare e bere, di saziarsi e ristorarsi… ma noi siamo troppo presi dal saziare e ristorare il nostro corpo, perché ‘’il ventre è – ormai- il nostro dio’’, siamo fatti o peggio ci siamo ridotti solo a ‘’carne’’, e diamo ascolto solo ai morsi, ai bisogni, alle richieste della carne, tutto il resto… è a noi sconosciuto, è da noi rifiutato direi, un rifiuto volontario, perché lo spazio interiore è scomodo e pesante, ingombrante, ci è d’ostacolo, rallenta il nostro passo,  ci induce a fermarci, rallenta la soddisfazione dei bisogni materiali, toglie spazio alle nostre urgenze esclusivamente fisiche.
Poveri noi!
Non siamo che erba secca, fieno, paglia bruciata dal sole ed invece siamo convinti di essere baobab rigogliosi carichi di frutti!
Poveri noi, perché annulliamo la parte migliore di noi e diamo spazio illimitato a quella parte destinata a perire, a ridursi in polvere, inanimata e inutile polvere.
Ci dice la Madonna nel messaggio del 25 febbraio scorso: ‘’Avete dimenticato lo scopo della vostra vita, il senso della vostra esistenza, vi siete persi in voi stessi, amate poco e pregate di meno’’.
Non poteva esserci fotografia più perfetta di questa: non preghiamo, non sappiamo amare e viviamo sazi di noi stessi, siamo noi al centro del nostro mondo. Siamo noi il centro di ogni cosa. Il fine ultimo di ogni cosa.
E non potrebbe esserci inganno più tragico di questo.
Abbiamo usurpato il centro all’Unico Vero Centro che ne ha vero e pieno diritto: a Cristo, vero e unico Centro di ogni cosa, in Lui tutto è ricapitolato, tutto confluisce in Lui, è quel Mare a cui giungono tutte le acque del mondo e solo in Lui trovano riposo .
Prendersi cura del proprio corpo non è un male in se stesso, anzi è un dovere verso se stessi, ciò che è male è l’esagerazione, dalla semplice e necessaria cura si è passati al ‘’ culto del corpo’’ , al punto da farlo diventare ‘’nuovo idolo, nuovo dio’’, centro primo ed unico della nostra attenzione.
Il ventre diventa il nostro dio, unico centro di interesse e di attenzione, al punto da  dominarci, ammaliarci,  schiavizzarci, asservirci totalmente.

Non è il mangiare in se stesso, ma quell’esagerazione immonda, quel compiacimento estremo, è quel saziarsi di mondanità che ci distrugge, che distrugge tanto la nostra stessa esteriorità, alterata nella sua bellezza originaria, quanto la nostra interiorità completamente annullata e cancellata dal nostro orizzonte di vita.
Il danno peggiore della mondanità è quello di averci privati della nostra tridimensionalità, del nostro spessore ed averci ridotti a ‘’figure piane’’, piatte, cioè a due dimensioni: altezza e larghezza, escludendo la profondità, quella profondità che ci dà la prospettiva tridimensionale, quel valore aggiunto che ci fa diversi  dalle cose e dagli animali.
Il problema vero è che noi non vogliamo essere diversi da loro, noi vogliamo essere proprio come loro, perché solo così potremo vivere in assoluta libertà tutta la nostra carica istintuale e soddisfare ogni più piccolo bisogno carnale, legittimo o meno che sia e sentirci sazi solo di questo.
Una sazietà transitoria, ovviamente!
Il nostro bisogno di saziare, di assecondare gli istinti più bassi che dentro si muovono toglie qualsiasi attenzione ai bisogni dello spirito, negando a se stessi la presenza di qualcosa di più grande e di più nobile che vive dentro di noi e che chiede la stessa attenzione data alla nostra corporeità.
Di te ha sete l’anima mia ed è una sete quotidiana, che si sveglia sin dal mattino: all’aurora ti cerco, a te anelo, come la cerva ai corsi d’acqua, come la sabbia arsa sotto il sole, di Te ha bisogno l’anima mia… che soccombe perché non so più trovarti, non so più riconoscerti, non so più come saziare la sete che mi devasta.
Risultati immagini per dar da bere agli assetati immaginiL’allarme è globale: la desertificazione avanza, la siccità aumenta, il deserto mangia i terreni un tempo fertili,  il deserto conquista  l’Occidente più di quanto si possa pensare;  l’aridità interiore ha ormai invaso tutto l’Occidente che ha perso la memoria dei tempi in cui era ‘’valle fertile, capace di essere e donare vita nuova’’.
Noi ci siamo inariditi e la cosa peggiore è che rifiutiamo che qualcuno riprenda ad irrigarci, sarebbe un dover ricominciare da capo, un abbattere per ricostruire… no, troppa fatica, chi ce la fa fare, stiamo bene così, con le nostre libertà conquistate, sì… come la libertà di lasciarci morire…
 È la decisione di qualche giorno fa di una donna malata di sclerosi multipla, intervistata dal TG2: ho già scelto il giorno in cui morire, è mio diritto farlo, non voglio soffrire!
Una scelta personale che diventa quasi diritto legale, è la conferma del nostro metterci al posto di Dio: solo io ho diritto di vita e di morte su me stessa.
Ecco, Dio non serve più, non ha nessun potere su di me, sono io padrona di me stessa, il corpo è mio e decido io se farlo vivere o morire.
Sconcertante!
Ciò che emerge non è tanto la sfida rivolta a Dio, quanto la nostra paura di soffrire, la nostra fragilità e la nostra consapevolezza di non poter fermare in nessun modo un processo degenerativo che porta alla corruzione del corpo, quella corruzione fisica che tanto spaventa, come se non fosse questa la realtà di ciascuno di noi, come se questo corpo fosse destinato all’eternità; questo accade quando la morte interiore anticipa la ‘’ sorella nostra morte corporale’’ per dirla con san Francesco; quando ‘’la sorella acqua’’ non ha più falde acquifere a cui attingere dentro di noi, quando tutto è ormai definitivamente inaridito dentro di noi.
In questa totale aridità, l’inesorabilità della malattia si fa tempesta di sabbia che oscura il Cielo e riduce tutto a tenebre, tutto a disperazione e la disperazione senza la luce della Speranza Vera induce a scegliere la morte come unica speranza, l’inganno è così realizzato: basta una tempesta di sabbia e tutto crolla, perché i castelli costruiti intorno a noi sono stati fondati sulla sabbia e non sulla Roccia.
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Sempre qualche giorno fa, sentivo l’esperienza, invece, di un giovane ragazzo, Nino Baglieri, di Modica (SI) che a  17 anni, il 6 maggio 1968, precipita giù da un’impalcatura alta 17 metri. Ricoverato d’urgenza, Nino s’accorge con amarezza di essere rimasto completamente paralizzato. C’è chi tra gli specialisti e i dottori arriva a proporre l’eutanasia, ma la madre coraggiosamente  si oppone, confidando in Dio e dichiarandosi disponibile ad accudirlo personalmente per tutta la vita.
I primi anni sono stati davvero tremendi, rifiutava quella situazione, avrebbe preferito morire piuttosto che vivere in quelle condizioni, poi, grazie alle preghiere della mamma, fervida e tenace credente, un po’ alla volta qualcosa è cominciato a cambiare dentro di lui, ha imparato a scrivere tenendo la penna in bocca ed ha scritto testi di una spiritualità eccezionale, la sua conversione interiore gli aveva ridato la vita, lo aveva portato a vita nuova, pur restando assolutamente immobile nel suo letto.
Per 40 anni ha vissuto come un ‘’tronco morto’’ fisicamente, ma come tenero germoglio capace di fruttificare interiormente; per lui è stata avviato il processo di beatificazione, perché ha fatto della sua sofferenza fisica un’opportunità per una rinnovata e riscoperta vita interiore, molto  viva e attiva, eccezionalmente e meravigliosamente vivace; un cammino di spiritualità frutto di un dono di Grazia non concessa per pietà per la sua condizione fisica, ma come risposta alle preghiere costanti della madre: bussate e vi sarà aperto, chiedete e vi sarà dato.
La sua è stata una guarigione spirituale di eccezionale bellezza e fervore; le sue ferite sono state risanate con l’Acqua dello Spirito che ha ridato vita ad un corpo morto.

Pur nella sua immobilità, Nino ha saputo essere testimone del Vangelo della gioia e della speranza. Acqua di sofferenza che si è fatta Acqua di conversione per tanti.
Assolutamente immobilizzato nel corpo, incredibilmente vivo nello spirito.
È possibile, sì, è possibile quando si accetta di bere quel ‘’Calice della salvezza’’  che ci viene offerto gratuitamente per amore; è possibile quando si fa dell’Amore la prima regola di vita e ci si affida ad essa.
Ecco, una madre assetata di giustizia, è stata ascoltata dal Giudice Supremo e le è stata fatta giustizia, ha avuto più di quello che ha chiesto: ha chiesto la vita per suo figlio e le è stata data l’eternità.
La generosità del Signore non ha paragoni.
Ha chiesto un sorso d’acqua, le è stato dato un ‘’fiume di acqua viva’’.
Risultati immagini per dar da bere agli assetati immaginiCome nella piscina di Siloe: il corpo spirituale di suo figlio è stato guarito, una guarigione così straordinaria che ha messo in secondo piano la sua immobilità corporea.
Ecco, noi ci muoviamo tra due estremi: estrema sazietà corporea ed estrema aridità spirituale; estrema infermità corporea ed estrema libertà spirituale.
La nostra fede si muove tra due estremi: da una parte viviamo della promessa dell’acqua che disseta in eterno, dall’altra assecondiamo i bisogni del corpo come se non ci fosse altro in noi, come se fosse la carne la nostra unica realtà.
Speriamo in una promessa, ma in realtà non facciamo niente perché questa promessa possa realizzarsi in noi.
Eppure ci è stato dato tutto ciò che serve perché questo possa davvero realizzarsi; siamo stati immersi nell’acqua del battesimo, acqua purificatrice che ci rinnova prima e ci ritempra dopo.
Rinnovati dall’acqua della misericordia, siamo stati purificati dal Sangue della Passione; nel Suo Sangue, le acque amare del peccato sono state trasformate in acque vive della resurrezione
È necessario rinnovare il nostro Battesimo nella ‘’morte di Cristo’’, è solo lì che la nostra arsura epocale può trovare ristoro.
Perché se noi ‘’abbiamo sete del Dio Vivente’’, noi ‘’siamo - anche - la sete del Dio Vivente’’
’Ho sete!’’
È stata una delle ultime parole dell’Uomo-Dio su questa terra: ‘’Ho sete! Sete di anime, sete del vostro amore, sete di voi, voi siete la mia sete inestinguibile.’’
Il Cristo, il Figlio del Dio Vivente ci hai lasciato in eredità la sua sete,  se ne è andato assetato,  interiormente lacerato dall’implacabile  ‘’sete di noi’’.
Risultati immagini per dar da bere agli assetati immaginiUcciso dai nostri chiodi e dalle ferite atroci inflitte al Suo Corpo, ma ancor più da quell’ Acqua che non abbiamo saputo dargli quando ci ha chiesto da bere.
Non siamo stati ‘’ ACQUA’’ per Lui, ma ‘’ACETO’’, aceto amaro che brucia ancora di più le sue ferite interiori ed esteriori.
Non gli siamo andati incontro con la brocca dell’acqua fresca attinta dal pozzo di Sichem,  ma con una spugna imbevuta di aceto, attinta al pozzo amaro  del nostro peccato, della nostra superbia.
’Ho sete!’’
È consuetudine non negare l’ultima sigaretta al condannato, noi invece gli abbiamo negato anche l’ultimo desiderio: l’acqua del nostro amore.
Lui ci hai lavati nel suo sangue, ci ha dissetati all’acqua sgorgata dalle sue piaghe, ci hai saziati con il vino di Cana, ci ha ristorati con l’acqua della roccia, la nostra sete non gli è mai stata estranea, non è rimasto mai indifferente neanche alle nostre necessità fisiche.
Noi, invece, abbiamo deriso la sua sete: una spugna di aceto gli abbiamo offerto. Fiele e aceto in cambio dell’Acqua ristoratrice!

Perdonaci Signore,
non abbiamo saputo dissertati un tempo,
quando ‘’non sapevamo chi era Colui che crocifiggevamo’’;
ma  non sappiamo farlo neanche oggi,
che sappiamo molto bene chi abbiamo crocifisso
e chi continuiamo a crocifiggere
con le nostre arroganze e presunzioni.

 Ti sei addossato anche la nostra sete, Signore
e il carico si è fatto
ancor più insopportabile!

Perdonaci, Signore,
perché siamo rimasti indifferenti anche
all’ultima richiesta del Condannato,
l’aridità del nostro cuore
non ha saputo esaudire neanche il suo ultimo desiderio.

La nostra crudeltà supera
quella di coloro che urlarono a Pilato:
‘’Crocifiggilo, crocifiggilo!’’

Sì, continuiamo a crocifiggerti
e a farti morire assetato oggi più che mai,
perché dentro di noi non scorre più ‘’Acqua’’,
siamo ormai a secco da tempo.
Ma se noi non possiamo darti quell’Acqua che ci chiedi
e se non sappiamo essere ‘’Acqua per te’’,
allora dacci Tu da bere, Signore;  
dacci Tu la tua acqua che disseta,
liberaci da quest’arsura che ci distrugge,
che ci allontana da te, Fonte d’acqua pura.

Dacci da bere Signore
e non stancarti mai di dissetarci,
di saziare l’ arsura del nostro cuore; 
‘’facci Acqua’’ , fiumi di acqua
così che anche noi possano straripare di ‘’Acqua Viva’’
e possiamo dissetare il mondo che ha fame e sete di TE.
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Dissetaci, Signore,
e facci acqua per dissetare le strade deserte del mondo,
per far fronte a quella desertificazione che ci devasta
e ci rende sterili;
aiutaci a metterci al servizio della Vita e non della Morte,
facci ‘’Acqua Viva’’  come Te,
che sei Fonte inestinguibile di Vita Eterna!
Facci ‘’Acqua Viva’’ per Te,
nostra Patria e nostra Felicità.

O Dio, tu sei il mio Dio, dall'aurora Tu ci cerchi,
di noi ha sete l'anima tua,
di questa terra deserta, arida, senz'acqua

Siano le nostre lacrime di pentimento, Signore,
 l’acqua che ti disseta,
l’acqua che rinnova il mondo,
l’ acqua che ci porta  a Te,
Mare di Misericordia Infinita,
 e in Te trovi, finalmente,

pace, ristoro e quiete!
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giovedì 25 febbraio 2016



MARIA REGINA DELLA PACE

    MEDJUGORJE

Messaggio a Marija del 25 febbraio 2016

"Cari figli! In questo tempo di grazia vi invito tutti alla 

conversione.

Figlioli, amate poco, pregate ancora meno. 
Siete persi e non sapete qual è il vostro scopo. 
Prendete la croce, guardate Gesù e seguitelo. 
Lui si dona a voi fino alla morte in croce perché vi ama. 

Figlioli, vi invito a ritornare alla preghiera del cuore 
perché nella preghiera possiate trovare la speranza 
ed il senso della vostra esistenza. 
Io sono con voi e prego per voi. 
Grazie per aver risposto alla mia chiamata"

sabato 13 febbraio 2016

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DAR DA MANGIARE AGLI AFFAMATI.

Risultati immagini per dar da mangiare agli affamati disegniSembra un controsenso, lo so, dire che in tempi di pace, di democrazia, di assenza di guerre, di abbondanza o meglio di ‘’superabbondanza’’, di sprechi alimentari pari a miliardi di tonnellate  ogni anno, si parli di ‘’fame’’ quale protagonista assoluta della nostra vita.
Ma vediamo cosa va intesa per ‘’fame’’.
Esiste la ‘’fame fisica’’, quella prettamente corporale ed esistono poi una serie di altre tipologie di ‘’fame’’ che non hanno direttamente a che fare con la sazietà del corpo, ma con la sazietà di altre zone d’ombra, zone di ‘’digiuno’’ che fanno comunque parte della sfera vitale di ogni singola persona.
Parlo di ‘’fame di Dio, fame di giustizia, fame di onestà, fame di sincerità, fame di fratellanza, fame di solidarietà, fame di rispetto, fame di pace, fame di comprensione, fame di famiglia,  fame di vita vera!’’ ; tanti tipi di fame che non sono certo né inferiori né secondarie alla fame che si percepisce quando lo stomaco è vuoto.
Ma andiamo con ordine, parliamo della fame del corpo, che sembra quella più evidente e urgente.


Dobbiamo, anzitutto, dividere il mondo in fasce o, se vogliamo, a macchie di leopardo, per meglio individuare le sacche di povertà assoluta, dove si muore letteralmente di fame, e le sacche di spreco alimentare dove si muore letteralmente di obesità.
Queste due realtà non sono più confinabili nel Nord o nel Sud del mondo, come un tempo, ma convivono in contemporanea fianco a fianco, è solo un angolo di strada ciò che le separa, non un confine geografico.
Basta girare l’angolo o anche solo aprire una porta!
Fame e abuso di cibo hanno una convivenza molto stretta ed anche una stretta interdipendenza.
Eccessivo spreco da una parte, eccessiva mancanza dall’altra.
Parliamo di situazioni concrete, reali, statisticamente confermate.
Quanto allo spreco  alimentare nel mondo si legge che:
‘’Dal 1974 a oggi lo spreco alimentare nel mondo è aumentato del 50% ma solo di recente, complice la crisi economica globale, la questione è trattata come un vero problema.
II 40% del cibo prodotto negli Stati Uniti finisce in discarica. In Gran Bretagna si buttano tra i rifiuti 6,7 milioni di tonnellate di cibo ancora perfettamente consumabile, per un costo annuale di 10 miliardi di sterline. In Svezia, mediamente ogni famiglia getta via il 25% del cibo acquistato. La situazione non è molto diversa in Italia.
Lo spreco alimentare nel mondo è una realtà drammatica che vede finire nella pattumiera miliardi di tonnellate di cibo. Attenzione! Miliardi e non milioni! Stando all’analisi realizzata dalla FAO, gli sprechi alimentari nel mondo ammontano a più di 1,3 miliardi di tonnellate all’anno, pari a circa un terzo della produzione totale. Insomma, su 3,9 miliardi di tonnellate di alimenti prodotti, 1,3 finiscono nella spazzatura. La FAO non è l’unica ad aver indagato su quello che è lo spreco alimentare nel mondo; stando a un’altra ricerca (Smil, 2010), solo il 43% dell’equivalente calorico dei prodotti coltivati a scopo alimentare a livello globale viene consumato dall’uomo.
Lo spreco alimentare non è solo una questione di cibo. Per arrivare sulle nostre tavole, gli alimenti di cui ogni giorno ci nutriamo, hanno visto l’investimento di numerose risorse naturali con un altrettanto importante impatto ambientale


spreco alimentareCon il cibo sprecato vengono, infatti, gettate via risorse come acqua, fertilizzanti, suolo, combustibili fossili e fonti energetiche di ogni tipo; per non parlare dello spreco economico e dello spreco in termini di risorse umane. Gran parte del fabbisogno idrico mondiale è legato proprio alla produzione di cibo e lo spreco alimentare è sinonimo di spreco d’acqua.

Lo spreco alimentare nel mondo vede tre punti critici:
  • Food losses
Si riferisce alle perdite che si determinano a monte della filiera agroalimentare, durante la coltivazione o l’allevamento, la raccolta e il trattamento della materia prima.
  • Food waste
Vale a dire gli sprechi che avvengono durante la trasformazione industriale, distribuzione e le produzioni in eccedenza (prodotto invenduto).
  • Sprechi domestici
Ossia gli alimenti acquistati ma che non finiscono sulla tavola dei consumatori perché lasciati scadere nel frigo o nella dispensa.

Lo spreco alimentare in Italia è altrettanto preoccupante. Nel nostro paese, nel giro di un anno, si spreca tanto cibo quanto potrebbe soddisfare il fabbisogno alimentare di tre quarti della popolazione italiana. Un anno di spreco alimentare in Italia sfamerebbe ben 44.472.924 abitanti, avete capito bene, quasi 44 milioni e mezzo di persone. Non c’è da meravigliarsi, allora, nell’apprendere che gli sprechi alimentari nel mondo potrebbero arrivare a sfamare l’intera Africa!
Spreco alimentare è sinonimo di spreco di risorse, in primis quella idrica; altro punto critico dato che è ormai risaputo, le risorse idriche del pianeta sono destinate a finire.
Stando a una ricerca scientifica dell’Università di Napoli, nel 2012, lo spreco alimentare in Italia ha toccato i 1.226 milioni di metri cubi d’acqua impiegata per la produzione del cibo che è poi stato gettato via senza essere consumato. Uno spreco idrico incredibile se si pensa che la stessa quantità di acqua avrebbe potuto soddisfare il fabbisogno idrico annuo di 19 milioni di italiani. Dei 1.226 milioni di metri cubi d’acqua sprecati, 706 milioni di metri cubi sono stati sprecati dai consumatori (in modo indiretto, sempre mediante gli sprechi alimentari), mentre i restanti 520 milioni di metri cubi sono stati sprecati durante la filiera produttiva, ancora prima di arrivare nelle case dei consumatori.
Lo spreco alimentare inquina anche in Italia. Sul fronte delle emissioni, sono 24,5 i milioni di tonnellate di biossido di carbonio sprigionati inutilmente in atmosfera per produrre beni alimentari destinati alla pattumiera. Il 20% di questi gas serra è legato al settore trasporti, di queste, 14,3 milioni di tonnellate di CO2 sono associate al cibo sprecato dai consumatori e 10,2 milioni di tonnellate sono legate alle perdite lungo la filiera alimentare.
(Da www.ideegreen.it, pubblicato da Anna De Simone)

Credo che sia molto chiaro il quadro della situazione.
Fame e spreco sono la stessa faccia di una società che ha perso la misura del limite, che ha perso il controllo dei propri bisogni, che ha investito esclusivamente sul profitto economico dimenticando che l’economia è per l’uomo e non l’uomo per l’economia.
Quando l’unica regola è  quella del Mercato e l’unico equilibrio da mantenere è quello economico di una parte del Pianeta, allora c’è poco da meravigliarsi se tutto il resto crolla come un castello di sabbia sotto il sole d’agosto.
Se l’attenzione non è rivolta all’uomo, a tutti gli uomini,  e ai suoi reali bisogni, ma soltanto ai flussi di spesa, è inevitabile la catastrofe umanitaria, ma nondimeno quella economica stessa, che implode su se stessa, non avendo al suo interno un ‘’sostegno’’ valido e solido che possa mantenerla in piedi: se crolla l’uomo, crolla l’economia, perchè non ha vita in sé, ma è (o almeno dovrebbe essere) al servizio dell’uomo.
La finanza non si regge su se stessa né per se stessa, ha necessariamente bisogno di un riferimento solido concreto che è l’uomo; escludendolo e precludendogli la presenza all’interno del suo mondo monetario ed economico, inevitabilmente crolla su stessa, perché non può vivere in funzione di se stessa, ma in funzione di un’ umanità intera e dei suoi bisogni concreti e reali.
Risultati immagini per dar da mangiare agli affamati disegniLa finanza invece ha invaso, se non completamente sostituito il concetto di ‘’persona’’, riducendolo ad un mero fruitore di una impalcatura mondiale economizzata, fine a se stessa, esclusivamente finalizzata al guadagno.
In quest’ottica di estrema globalizzazione economica riguardanti grandi multinazionali e grandi profitti monetari… l’uomo fa la fame!
Fa la fame corporale: si muore, a milioni, di fame, bambini soprattutto, bambini in tante parti del mondo!
Fa la fame di giustizia: chi spreca e chi ha bisogno del necessario, l’essenziale minimo per la sopravvivenza.
Fame di economia anche: lo spreco pesa sulla bilancia economica di tanti Stati oltre che sul bilancio economico familiare.
Fame di rispetto: rispetto ambientale, rispetto umano, rispetto dei principi politici ormai totalmente asserviti alle regole finanziarie ed economiche di tutti i Continenti.
Fame di valori: per la strumentalizzazione dell’uomo a fini economici.
Fame di verità: le statistiche rivelano una parte del problema, solo alcune delle cifre utili a capire la realtà nella sua ampiezza; a voler essere chiari e veri, occorrerebbe rendere pubbliche anche le cifre degli incassi delle singole parti in causa e le cifre, mai adeguatamente quantificate, di coloro che ‘’fanno la fame’’ sotto lo sguardo indifferente del mondo intero, pagando, ignari, le conseguenze di una filiera consolidata di investimenti e incassi, di equilibri squilibrati, di logiche di morte piuttosto che di attenzione alla vita.

A voler parlare di questo non basterebbe l’intero spazio Internet per portare alla luce le situazioni sommerse di indigenza umana che fanno a pugni contro le situazioni di obesità economica concentrate nelle mani di pochi ‘’burattinai’’ che muovono le fila della Storia mondiale.

Ma voltiamo pagina, perché c’è di peggio…

In un altro articolo, sempre sul sito di www.ideegreen.it, pubblicato da Michele Ciceri, si legge che

‘’Ogni famiglia getta nella spazzatura ogni settimana 639 grammi di cibo, per un controvalore di 6,5 euro settimanali e un complessivo di 8,1 miliardi di euro annui.’’
Sembrano cifre da capogiro, eppure subito dopo, continuando a leggere lo stesso articolo se viene a scoprire che gli Italiani sono particolarmente attenti allo spreco alimentare…

’A rivelarci che non sprecare sembra il nuovo comandamento degli italiani è il Rapporto 2014 sullo spreco domestico di Waste Watcher – Knowledge for Expo, l’Osservatorio di Expo 2015 su alimentazione, agricoltura, ambiente e sostenibilità.
I risultati dell’indagine rivelano un’Italia inaspettatamente attenta allo spreco, in particolare lo spreco di cibo. A considerarsi attenti da questo punto di vista sono 63 cittadini su 100; più dei 48 su 100 che considerano importanti i prodotti locali e il 47% che ha a cuore soprattutto il rispetto per l’Ambiente.
La sicurezza è una priorità per il 42% degli italiani, l’equità per il 39% e la tolleranza per il 12% soltanto. Siamo un Paese di intolleranti? No, più probabilmente è che la gran parte dei cittadini quando si guarda attorno non constata un deficit di tolleranza, mentre vede cose gravi sul fronte dello spreco domestico.’’.
Ecco l’altra faccia della fame: l’egoismo, l’egocentrismo, l’intolleranza tollerata.
I nostri occhi si sono impigriti, stentano a vedere, a leggere correttamente la realtà, vedono e non vedono, percepiscono alcuni riflessi, ma non riescono a vedere  più la realtà nella sua interezza, nella sua verità.
Siamo così presi dai nostri interessi che non ci interessa nient’altro, nessun altro.
Il nostro sguardo sul mondo amplifica, ingigantisce alcuni settori e ne oscura altri.
Li eclissa totalmente. Rendendoli invisibili pur essendo reali.
Ecco che passiamo sopra, ignoriamo, non diamo nessun peso ai problemi di tolleranza/intolleranza che ci circondano e ci interpellano personalmente e ci concentriamo ancora una volta soltanto su aspetti economici , che siano di ordine familiare o socio-politici.
C’è fame di ‘’realtà’’, non siamo più obiettivi, non siamo più in grado di leggere la realtà che ci circonda nella sua verità.
Andiamo dove i Media, ormai padroni assoluti del nostro pensiero critico, ci portano; puntano i loro obbiettivi su questo o su quell’argomento ed ecco che tutti noi guardiamo solo in quella direzione e vediamo solo quello che l’obbiettivo ci porta a vedere, oscurando tutto il contesto, negando tutto il resto.
L’obbiettivo di una telecamera, per sua natura, racchiude una piccola parte di realtà, non ha uno sguardo ampio, ma relativo all’interesse del momento e dell’operatore che inquadra questa o quella situazione.
Ecco, noi andiamo dietro a quell’obbiettivo,  credendo che la realtà sia tutta racchiusa in quei pochi cm di spazio filtrato da una lente e dall’interesse di chi guarda per noi la realtà in cui siamo immersi.
Non riusciamo a vedere al di là di quell’obbiettivo, al di là del nostro naso.
E questa è anche un’altra delle conseguenze del nostro impigrirci, conseguenza a sua volta, della nostra obesità, che appesantisce e rende difficile ogni movimento, tanto quello del corpo quanto quello dello spirito.
Stiamo comodi, abbiamo tutto, abbiamo il di più… tutto il resto non ci tocca, non tocca a noi risolvere i problemi del mondo, neanche occuparci di quelli contro i quali sbattiamo il naso ogni giorno; non ci interessa nessun altro che non sia il nostro personale portafoglio!
Risultati immagini per dar da mangiare agli affamati disegniConseguenza di un perbenismo ipocrita e sazio che esclude l’altro dal proprio orizzonte di vita e di responsabilità.

Ma anche laddove la responsabilità, svegliata dalla coscienza, dovesse venire a interpellarci, ecco che l’ostacolo, il freno è già presente, è già pronto per impedirci quell’apertura che a volte si profila nelle nostre menti; la cosa peggiore è che quel freno viene proprio ad opera di coloro che dovrebbero avere a cuore il Bene Comune, la Res Pubblica che non è fatta solo di economia e di decreti legislativi per la tutela degli interessi privati di un pugno di senatori dissennati; il Bene Comune include tutti, ricchi e poveri, uomini pubblici e uomini invisibili.
Invece…
Invece… tra il dire e il fare… c’è sempre la burocrazia, la politica  e gli interessi economici che offendono la giustizia, pubblica e privata , a favore di una cecità spirituale che rivela una fame di umanità, di buon senso… semplicemente di buon senso o anche, se vogliamo, di semplice e normale senso pratico che qualcuno a volte mostra che ancora esiste nelle qualità tipicamente umane.
Buon senso e senso pratico sbaragliati dalle ferree leggi della finanza!
Esempi concreti?
Due per tutti!
Il primo riguarda l’iniziativa privata di un panetterie dell’Umbria, portata all’attenzione del pubblico  con un servizio mandato in onda nel programma di ‘’Vita in diretta’’ di qualche giorno fa.
Un giovane panettiere aveva deciso di mettere sulla sporgenza di un muretto a fianco dell’ingresso del suo forno, una piccola cesta contenente non più di una ventina circa di panini, rimasti invenduti al termine della giornata, a favore dei passanti bisognosi, che siano immigrati o compaesani in difficoltà economica.
Semplice pane avanzato.
Un piccolo e semplice gesto di generosità che poteva fare la differenza per tante persone o anche famiglie.
Per farla breve, quel giovane panettiere è stato multato per aver abusato di suolo pubblico (lo spazio su cui poggiava la cesta di 50 cm circa) e gli è stato vietato di continuare a farlo in ottemperanza alle leggi comunali in materia di vendita e commercio.
Ora… offrire del pane avanzato, tra l’altro, per evitare che finisca nella pattumiera, può essere mai in contrasto con le leggi comunali o di mercato?
La lotta allo spreco non può forse passare anche attraverso microscopiche iniziative private, una goccia nell’Oceano della fame, ma che senza quella goccia anche l’Oceano è più povero?
Mi chiedo: possiamo accontentarci delle statistiche e poi impedire di fatto  ogni possibile soluzione?
Si tratta di vero e immotivato impedimento da parte di Enti governativi che dovrebbero tutelare il benessere dei loro cittadini, di tutti i loro cittadini, e questo è ancora peggio della mancanza assoluta di leggi a favore della solidarietà e dell’aiuto fraterno.
Il secondo esempio ci viene dal rapporto, sempre disciplinato da leggi governative, fra aziende pubbliche e organismi di solidarietà.
Parlando con una persona responsabile della Caritas in  una parrocchia periferica di Roma, mi diceva che i ristoranti, i forni o tutte quelle aziende di tipo alimentare alle quali avanza cibo quotidiano possono offrire liberamente solo una limitata quantità di prodotti alimentari avanzati, oltre quel limite stabilito tutto ciò che ancora resta deve essere buttato, incenerito o comunque distrutto in qualche modo. Non si può, per nessun motivo, superare le quantità stabilite, nemmeno se la richiesta fosse superiore a quanto offerto.
La Caritas parrocchiale in questione si occupa della sopravvivenza quotidiana di circa 150 famiglie di immigrati oltre di una sacca di povertà piuttosto ampia formata dalle famiglie stesse della parrocchia.
Finiscono al macero quintali di prodotti alimentari in buono stato che, per leggi dello Stato, non possono essere offerte in beneficenza a famiglie bisognose, neanche a quelle stesse famiglie di cui lo Stato dovrebbe farsi carico in prima persona.
 Situazione paradossale… o direi… peggio… inaccettabile!
Eppure è così, il rapporto tra il pubblico e il privato, lo Statale e il non-profit, le leggi dell’economia e quelle della solidarietà… pare sia un controsenso unico, un’opposizione e non una condivisione.
Assurdo!
Assurdo e inaccettabile!
Come se nel concetto di ‘’Bene Comune’’ non fosse contemplato il dovere di ‘’dar da mangiare agli affamati’’., neanche laddove quel ‘’dar da mangiare’’ è un avanzo, un di più che non toglie niente a nessuno, ma dà una speranza di vita a tanti.
Saziare la fame è un bisogno primario.
Il diritto al cibo non è un lusso o una libera e occasionale concessione: è un dovere degli Enti locali provvedere, in misura adeguata, con mezzi pubblici o anche privati, al sostentamento essenziale per la sopravvivenza di tutti i suoi cittadini.
Ma anche questo diritto/dovere è vincolato dalle leggi del mercato.
Dalle spietate leggi del Mercato finanziario, leggi ferree e invalicabili, pur di fronte ad un bisogno concreto, reale e urgente!
Questa è una realtà che riguarda tutti gli organismi umanitari, da quelli su scala mondiale a quelli locali nati dall’iniziativa del singolo privato che ancora riesce a leggere oltre la miseria di una politica non pro-humanitate, ma pro-economy!

Un ultimo esempio, una sofferenza che mi porto nel cuore da circa un anno, una ferita che non riesce a riemarginarsi… dovrei dimenticare… ma non è possibile!
Non voglio!
Qualche mese fa, trovandomi a Roma in quei giorni,  in seguito ad un improvviso malore, chiamata l’autoambulanza, fui trasportata in un ospedale della capitale.
Quando entri in un’autoambulanza non sai mai dove vai a finire, non sei tu che decidi dove andare ‘’a morire’’ ( perché di morire si tratta, non è detto che si arrivi vivi in ospedale dopo un viaggio in autoambulanza per le strade bucate di Roma!) ma dipende dai posti liberi nei pronto soccorsi e questo è un grosso punto interrogativo, perché andare in un pronto soccorso di Roma significa ‘’scendere all’inferno’’.
L’autoambulanza si è fermata in un Campus Universitario, tra i più rinomati d’Europa.
Dopo circa un’ora di strada su una barella sgangherata (dove morirebbe anche chi gode di ottima salute) e sobbalzi continui che rendevano più acuto il dolore,  giunta finalmente al pronto soccorso sono stata scaricata su un’altra barella  e messa in uno dei pochi angoli ancora vuoti del corridoio.
Codice giallo.
Dopo mezz’ora di dolori atroci, finalmente qualcuno mi ha rivolto lo sguardo e sono stata portata in un altro angolo del corridoio, ancora in attesa di attenzione da parte di qualche dottore o personale medico-ospedaliero addetto.
Passa ancora del tempo, qualcuno arriva, cerca velocemente e distrattamente di capire di cosa si tratta… poi, dopo una TAC  vengo depositata in un altro corridoio… ci resterò per tre giorni!
Su una barella. Senza comodino. Senza sedia. Senz’acqua. Tra gli spifferi e le correnti d’aria che rendevano ancora più invivibile quell’affollato corridoio dove i rumori, il via vai di gente di ogni genere e la confusione era ininterrotta. A ciclo continuo.
Tutti vanno di fretta.
I malati sono tanti. Il personale scarseggia.
Fa freddo, entra vento da tutte le parti. Stai male.
C’è nervosismo nel personale.
Sono tutti stanchi.
Stressati.
Al limite delle forze.
Capisco.
Guardo e capisco.
Mi guardo intorno.
Su tutti i lati del corridoio c’è gente su una durissima barella… in fin di vita; su una barella che ti penetra fin nelle ossa… consuma i tuoi ultimi istanti di vita e le poche forze rimaste.
Vorresti alzarti, perlomeno girarti un po’… senti il dolore farsi insopportabile…  ma non puoi alzarti, nemmeno muoverti, le flebo ti bloccano.
Chiedi di poter bere almeno una goccia d’acqua. Nessuno ti ascolta. Ti passano a fianco. Indifferenti.
Non sentono la tua richiesta. Parlano fra di loro. Nessuno ascolta.
Resti lì, trapassata dalla sete, dall’immobilismo obbligato, dall’indifferenza del personale.
Pensi e piangi.
Di fronte a me una ragazza che ha tentato il suicidio, aspetta una lavanda gastrica. Rischia la vita.
Il padre è disperato, cerca aiuto. Tutti hanno da fare.
A fianco a lei una donna con una gamba spezzata, aspetta l’intervento da settimane, sta male, sta lì da una settimana circa perché non c’è posto nel reparto: occorre essere raccomandati per averne uno.
Forse – mi confida – è riuscita a trovare qualcuno che possa parlare a suo favore.
Spera.
Altre tre signore anziane dall’altra parte, tutte lì da giorni, stanno male, tutte in attesa di un intervento ancora tutto da ‘’decidere e in data da stabilire’’; hanno bisogno di bere, ma non c’è nessuno che si ferma a dare loro un po’ d’acqua.
La loro sete amplifica la mia.
È pomeriggio.
Nell’altro corridoio… c’è un bambino, un migrante che è venuto in Italia per poter stare finalmente con la mamma, già in Italia da qualche anno; è caduto e si è fatto male.
Non si sa cosa ancora quanto sia grave. È lì dal mattino, ma nessuno ancora si è fermato  presso la sua barella; la mamma parla un poco l’Italiano, ma non osa chiedere.
Ha pazienza – dice – qualcuno, prima o poi, verrà anche da loro!
Spera e accarezza il suo bambino, mentre aspetta che qualcuno si ricordi di loro.
I corridoi portano al reparto che si apre al di là del muro presso il quale sono stata ‘’depositata’’. Sento lamenti, respiri lenti e respiri affannosi, sento gente che piange, che chiede aiuto, sento risposte che non mi danno sollievo né consolazione…  siete tanti e noi siamo in pochi, dovete aspettare, non è colpa nostra, non sappiamo come fare… basta… finitela… non abbiamo tempo… e così per l’intera giornata… per l’intera nottata e per i giorni a venire!
Sto male e non solo perché sto ancora male e non so ancora il perchè… sto male perché sta male tanta gente intorno a me, il loro dolore mi penetra più del mio,per quanto insopportabile sia.
I macchinari che entrano in loro con ogni genere di tubi e tubicini sono le uniche cose che si prendono cura della loro sopravvivenza… qualcuno non ce la fa… lo portano dietro una tenda, chiamano i familiari… dopo un po’ una barella ricoperta da un telo bianco attraversa il corridoio e scompare dietro una porta subito chiusa.  Dopo qualche minuto riportano indietro la barella, viene rapidamente spruzzata con un ‘’disinfettante’’ , poi vengono a prendermi e mi ridepositano sopra, perché la mia serve per qualcun altro.
È un incontro di vita e di morte.
La vita che va.
La vita che soffre.
La vita che spera.
Sto male… mi sembra l’inferno… il mondo è lontano.
Mi sovvengono i lazzaretti di manzoniana memoria. Ma almeno lì non si moriva così.
Forse lì, chissà, non si moriva  affamati!
Oggi, sì proprio oggi, a Roma, si muore di fame… nel migliore ospedale europeo!
Sono rimasta digiuna per due giorni, in attesa che qualcuno capisse la causa del mio malore.
Al terzo giorno sono stata portata in una specie di sgabuzzino, attrezzato come stanza per gli ammalati:  finalmente avevo una specie di materasso, non più alto di qualche cm, ma a me è sembrato ‘’un letto regale’’ .
Pensavo a tutti quelli che stavano immobili su sedie a rotelle da giorni, con tubi che entravano dappertutto: dal naso, dalla bocca, dalla pancia, dalle braccia….
Immobili e soli… a lottare per la sopravvivenza e contro la speranza che si affievoliva sempre più, gestiti come ‘‘pupazzi’’ dagli infermieri di turno: girati, rigirati, spogliati, rivestiti… pochi attimi e subito un altro… non hanno tempo, non hanno pazienza, non hanno attenzioni.
È un compito da fare. Sono tanti i malati, loro sono pochi, devono fare l’essenziale e farlo in fretta.
Il loro dolore mi penetra più del mio.
A fianco a me c’è un altro letto: una signora sulla quarantina, ammalata di SLA, è caduta e si è rotta una scapola; è stata nel corridoio anche lei per giorni, su una dolorosissima barella, immobile, da sola; il suo medico curante le aveva sempre detto che per lei il movimento è essenziale, se si ferma, nonostante la sofferenza che le provoca il movimento, per lei è finita,  accelera il processo di  immobilizzazione.
Questo i medici lo sanno bene, come pure l’ortopedico che l’ha visitata distrattamente la prima mattina che è arrivata. Sono passati giorni, non è più scesa da quella barella. Sa che ogni attimo che passa così è tempo prezioso per la sua autonomia già abbastanza compromessa.
Sa che in quello stato rischia la paralisi completa. Lo sanno anche i dottori.
Ma nessuno sembra preoccuparsene.
Era già al quarto giorno, il dolore le si era fatto insopportabile… eppure il sorriso non le si era mai spento. Aspettava con fiducia le figlie e il marito… ma non veniva mai nessuno.
A mezzogiorno hanno portato il pranzo in ciotole di plastica: brodo e patate lesse.
Anche se ancora in via sperimentale, potevo finalmente alzarmi e provare a mangiare qualcosa.
Ho preso un cucchiaio di brodo. È finito lì il mio primo pranzo dopo tre giorni di digiuno.
Quello non era un pranzo.
I cani non l’avrebbero mangiato.
Neanche se fossero stati digiuni da settimane.
Era acqua cotta. Acqua per lavare i piatti.
Disgustosa. Immangiabile. Qualcosa di indefinibile.
Eppure non mangiavo da giorni. Eppure non sono un tipo schizzinoso.
Eppure ho mangiato anche in altri ospedali. Eppure avrei voluto mangiare.
Eppure sapevo di non essere al ristorante… non mi aspettavo pietanze saporite… ma nemmeno cibo immangiabile neanche per i maiali!
Quella cosa che chiamavano ‘’pranzo’’ non era buono neanche per gli animali affamati!
Lascio tutto sul tavolino. Mi giro per vedere se la mia compagna di stanza avesse mangiato.
Vedo il vassoio intatto sul suo comodino. Le chiedo perché non avesse mangiato.
‘’Non riesco - mi risponde - con la mano sinistra non riesco a mangiare. Speravo che venisse mia figlia per aiutarmi, invece è già tardi, non credo che verrà più’’.
‘’ Se vuoi, ti aiuto io’’.
Mi avvicino per sistemarle il tovagliolo.
 Al braccio destro ha la flebo da giorni, al sinistro una fasciatura che le avvolge tutta la spalla.
Le avvicino un cucchiaio di brodo.
Lo sorseggia e mi fa cenno con il capo di non volerne più.
’Non ne vuoi più? - le chiedo – Lo so che non è buono, ma sei digiuna da giorni, lo sai che rischi molto se non mangi? ‘’.
‘’Non riesco a mangiarlo. È lo stesso pranzo di tutti i giorni. Sembra che sia stato preparato una settimana fa.’’
‘’Sì, lo so, neanch’io sono riuscita a mangiarlo. Vuoi almeno assaggiare le patate? Forse quelle si riescono a mangiare o anche solo un boccone di pane!’’
‘’ Le patate le conosco già, sono le stesse di ogni giorno. Ed anche il pane. Credo che non sia fatto di farina. Preferisco restare digiuna, almeno evito di stare male anche di stomaco. Mi basta il dolore che ho.’’
‘’Ma non hai fame? Sono parecchi giorni che non mangi! Rischi di peggiorare la situazione!’’
‘’ Forse il digiuno è più sopportabile della nausea che provoca quel cibo dopo averlo ingerito.  Lo dico, perché ci ho provato. Ed io non posso alzarmi neanche per vomitare!‘’
Non ho osato insistere.
Sapevo di cosa parlava.
Sapevo che rischiava la vita non mangiando e sapevo anche che lei  amava la vita. Che desiderava vivere. Era una persona solare. Serena. Bella dentro e fuori.
Ma non poteva mangiare ciò che era immangiabile.
Le porgo un po’ d’acqua… e il suo digiuno, stranamente, mi diventa più insopportabile del mio.
Io forse uscirò a breve, lei chissà quando… che ne sarà di lei!?
Esco nel corridoio per lasciarla riposare, anche parlare le costa fatica.
Percorro il corridoio nel quale si aprono le stanze del reparto.
Il corridoio è strapieno di barelle e sedie a rotelle. Stanno lì da giorni anche loro.
Molti lottano tra la vita e la morte. Vedi la morte nei loro occhi. Sono pallidi. Alcuni respirano appena. Sono soli. Sono spaventati. Sono abbandonati.
Soffrono tanto.
Il tic continuo dei macchinari a cui sono attaccati sembra l’unica cosa viva di quel luogo.
I letti nei reparti sono pieni. Non c’è un angolo libero.
Passo in mezzo a loro. Tra le barelle a desta e a sinistra.
Lo sguardo si ferma sulle scodelle ancora tutte piene, alcuni non hanno neanche aperto la bustina con le posate. Non mi chiedo come mai.
So già la risposta, non ho bisogno di chiedere.
Mi fermo a parlare con qualcuno di loro.
Ci sono delle signore anziane che sembrano star un po’ meno male degli altri: qualcuna aspetta la figlia o il figlio che le portino qualcosa da mangiare. Una mi parla dei suoi tre figli. Li adora.
Ne è orgogliosa. Li aspetta. Il digiuno e il dolore sembra passare in secondo piano mentre mi parla della sua famiglia. Sembra estasiata al solo pensare a loro.
Gli affetti familiari sembrano saziare più di quel cibo lasciato tra le corsie di un reparto di moribondi. Ma quell’affetto è solo nel loro cuore. La famiglia è lontana. Ha i suoi impegni di lavori. I loro orari. Non possono far visita ai loro familiari.
Tanto.. stanno in ospedale… lì c’è (o ci dovrebbe essere) chi si prende cura di loro!
I vassoi sono tutti intatti, gli inservienti vengono a riprenderli e li svuotano in recipienti che non riescono più a contenerne il contenuto.
Li riportano al mittente.
Nessuno ha mangiato.
Per molti quello poteva essere l’ultimo pasto della loro vita.
Per molti è stato l’ultimo pasto della loro vita.
Ritorno nella mia camera.
Sto male, anche se il dolore fisico è diminuito di molto.
Sto male e mi viene da piangere.
È vita umana quella intorno a me.
Sono esseri umani quelli che ho incontrato.
Sono persone che soffrono. Sono persone che sperano nell’aiuto e nell’attenzione dell’altro.
Sono persone… che vorrei abbracciare, accarezzare, dar da mangiare… ma non posso farlo.
Nessuno può avvicinarsi a loro. Nessuno può dare loro altro se non quello stabilito dall’ospedale.
Se non quello stabilito dall’ospedale!
Ma l’ospedale non può stabilire quelle cose!
Non può dar da mangiare a dei moribondi cose simili!
È immorale!
È contro la natura stessa dell’ospedale.
L’ospedale è un luogo pro-vita, non pro-morte!
E allora come si spiega un simile trattamento?
Arriva la dottoressa per il controllo giornaliero.
Le chiedo timidamente: ‘’Dottoressa, ma avete mai assaggiato il pranzo per gli ammalati? Come è possibile dar da mangiare questa roba?’’.
‘’Sì, lo sappiamo. Quasi nessuno mangia qua dentro. Ma non possiamo farci niente. L’ospedale affida il servizio a delle cooperative che a loro volta si servono di persone che vengono ingaggiate per tre mesi e poi si cambia. Sono persone a volte senza esperienza, anche giovani disoccupati che non sanno niente di cucina, lavorano per qualche mese poi vanno via. All’ospedale conviene perché così risparmia, ma sappiamo quali siano le conseguenze. Eppure non possiamo fare niente.
È la Direzione che decide.’’
‘’E il nutrizionista? Il dietologo? Tutti gli esperti in alimentazione che tanto vengono applauditi quando si fa pubblicità all’ospedale? Quado ci sono i riflettori puntati sul mondo? Dove sono? Cosa ne pensano? Cosa fanno per garantire la sopravvivenza e i diritti dei malati?’’
Sorride amaramente, non risponde. Prende la sua cartella per annotare i risultati della sua visita e va via.
Il suo silenzio è abbastanza eloquente!
Mi chiedo in che mondo viviamo. Mi chiedo se è davvero questa la nostra realtà.
Penso che forse l’essere lì dentro da giorni, mi abbia estraniata dalla realtà.
Forse sto immaginando io tutto questo.
Poi mi giro e guardo la mia compagna di stanza: no, lei è reale. Il suo dolore è reale.
La sua fame è  più reale della mia.
Morire affamati  su una sedia nei migliori ospedali d’Europa!
È follia!
Impossibile anche da immaginare.
Ma era tutto vero.
Tragicamente tutto vero.
In quel luogo di cura e di attenzione alla vita, l’uomo aveva perso ogni dignità.
Ogni significato. Umano. Morale. Etico. Sociale.
L’uomo era semplicemente frutto di un’operazione matematica.
Di una scelta di convenienza.
L’uomo era un oggetto.
Sì, in quei corridoi e in quelle stanze non c’erano uomini e donne, esseri umani, ma oggetti  da usare per un’immagine apparente…
Sì… un’immagine apparente!
Qualcuno viene a dirmi che nel pomeriggio potrò uscire e tornare a casa.
Non riesco a gioire.
Dovrei esultare.
Non riesco.
Qualcosa mi schiaccia l’anima.
Un peso insopportabile!
Un dolore infinito mi dilaga dentro.
Guardo la mia compagna di stanza.
Immobile nel suo letto.
Quel letto potrebbe essere la sua rovina.
Ha bisogno di alzarsi.
Non può.
Leggo il suo dolore sul volto, anche se mi sorride rispondendo al mio sguardo.
Chi l’aiuterà adesso che vado via?
Non viene nessuno della sua famiglia.
Le infermiere non hanno tempo per ascoltare i suoi bisogni.
Chi le darà da bere.
Vorrei restare lì almeno per lei.
Sarei andata via quando lei sarebbe andata via.
Ma devo sbrigarmi.
Quando mi portano la cartella clinica devo già essere pronta.
Preparo in fretta le mie cose.
Poche cose.
Il peso più grande me lo porto dentro.
Il borsone è leggero. Leggerissimo.
Ma non riesco ad andare via così.
Proprio non ci riesco.
Devo fare qualcosa.
Sì, devo fare qualcosa.
Cerco l’uscita.
Ci sarà pure una cappella da qualche parte.
In ogni ospedale ce n’è sempre una.
Ne  troverò una da qualche parte.
Apro la porta da dove vedo arrivare gente che va e viene.
Apro la porta e…
Non credo ai miei occhi!
Non posso credere ai miei occhi!
Mi sembra di aver cambiato libro da leggere… da un libro di tragedie ad uno di fiabe!
Davanti a me un corridoio immenso lastricato di marmo pregiato che si riflette sulle pareti verniciate di un rosa candido… uno spettacolo meraviglioso!
Incredibile!
Insospettabile!
Mi sembra di essere Cenerentola nella reggia del principe: con il mio pigiama macchiato di medicine in un luogo lussuoso dove si potrebbe usare il pavimento per mangiare tanto è pulito e splendente!
Percorro il corridoio e vedo da lontano l’interno delle stanze!
Mi sembra un albergo a… 10 stelle!!!
Un ordine e una pulizia fuori dal tempo!
Un lusso che non avevo mai visto prima!
Non so se piangere o…
Seguendo le indicazioni arrivo finalmente alla cappella.
Mi colpisce la sobrietà del luogo. Anche l’intimità.
Non c’è nessuno.
Mi inginocchio e racconto a Lui ciò che mi schiaccia il cuore!
Arriva il cappellano. Celebra la messa.

Non ho molto tempo.
Devo andare.
Ma non posso.
Non posso andare via così.
È tardi. Non posso trattenermi oltre.
Esco in silenzio.
Raggiungo la mia stanza.
La dottoressa mi rimprovera.
‘‘Ma dove sei andata? Ti abbiamo cercata dappertutto! Lo sai che devi uscire. Devi approntarti subito, perché serve il letto libero.’’.
Raccolgo il rimprovero e riesco a dire solo:’’ Sono andata a pregare…’’.
Lei mi guarda e tace.
Risultati immagini per dar da mangiare agli affamati disegniAvrei voluto dire per chi ero andata a pregare… ma non ci sono riuscita.
Sì, avevo da ringraziare per me… e avevo da affidare tutti loro alla misericordia del Signore… loro… i dottori… prima ancora che gli ammalati… perché non facesse mai dimenticare loro che ogni uomo, ammalato o non, ‘’è carne di Cristo’’;  che ogni ammalato è un fratello da amare non da sfruttare e che se ‘’dar da mangiare agli affamati’’ è un dovere morale verso la Carne di Cristo… ‘’dar da mangiare agli ammalati affamati’’ è un grido di dolore lacerante ‘’ai piedi di Cristo’’ .

Il ricordo di quegli ammalati affamati ed ammassati nei corridoio del Pronto Soccorso e buttati lì come ‘’oggetti’’ e l’immagine stridente dei reparti che si aprivano lussuosi al di là di quella porta mi faceva più male del dolore atroce che avevo provato quando sono giunta in ospedale.

L’immagine che si dà al mondo non sempre corrisponde all’immagine reale.
Non è così che devono andare le cose.
Si risparmia sull’essenziale e si ostenta il lusso che riempie gli occhi e svuota le pance dei moribondi!
 Una realtà inaccettabile!
Inqualificabile!
L’ospedale risparmia sulla pelle dei moribondi, per un lusso di gran lunga al di sopra del necessario!

Ecco la vergogna della fame: fame di fama!

Ecco la vera fame: fame di giustizia!

Fame di verità!

La mia fame di quei giorni l’ho dimenticata, ma la loro no, mi è rimasta addosso, mi è rimasta dentro, è una fame insaziabile di giustizia, di dignità, di umanità.
Si c’è tanta fame nel mondo, fame di serietà, di onestà, di dignità, di giustizia, di amore vero, di cose vere, di parole vere…
La loro  fame proprio non riesco a dimenticarla, non riesco a scrollarmela di dosso… non posso… forse non voglio… voglio ricordare… per ricordarmi di tutti loro e di tutti quelli che prenderanno il loro posto… il mio posto… voglio ricordarmi di loro… non dimenticarmi di nessuno: dei dottori distratti, degli infermieri stressati, dei malati  affamati, dei moribondi che non ci sono più, dei giovani infermieri che si drogavano fuori dalla porta e poi si sdraiavano sulle barelle in attesa che fosse passato l’effetto per poi ritornare a cambiare le flebo a chi lottava tra la vita e la morte… della sofferenza che viene amplificata dall’incuria dell’uomo, dello sguardo amaro della dottoressa quando le ho chiesto il perché di tutto quello, dell’attimo in cui ho salutata la mia compagna di stanza … ed ho pensato a tutti quei programmi televisivi dove si cucina in diretta e si calcolano le calorie, la spesa, il tempo da impiegare, si guarda l’estetica del piatto e al recupero dei prodotti biologici o locali;  ed ho pensato a quante parole e a quanta carta viene riempita nel parlare di ‘’corretta dieta’’ per ogni fascia di età; ed ho pensato a quanta attenzione viene data alle regole per una giusta alimentazione fin dai primi anni di vita; ed ho pensato a quanta importanza si dà al cibo nelle nostre case, nelle nostre feste; ed ho pensato a quanto pubblicità veniva fatta, in quei giorni, per l’Expo di Milano il cui titolo era ‘’Nutrire il Pianeta’’… come se quelle persone non fossero parte integrante ed essenziale del Pianeta, non fossero la priorità del Pianeta!
Come se lei… immobile su un letto d’ospedale non avesse diritto al suo … adeguato cibo quotidiano!


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Dacci oggi , o Signore, il nostro pane quotidiano… e non lasciarci alla tentazione di sentirci sazi di noi stessi … aiutaci a farci carico della fame altrui e ad avere sempre il tuo sguardo su questa umanità sofferente e affamata di... TE!



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